«A chi la tocca, la tocca», o: Il sogno di Tonio

Tonio e Gervaso sono i due fratelli che, nei capitoli VI-VIII de I promessi sposi di Manzoni, sono coinvolti da Renzo come testimoni del suo matrimonio a sorpresa con Lucia, che tentano di celebrare a forza di notte, davanti a un attonito Don Abbondio. Come è noto, il tentativo fallisce e le strade dei personaggi si separano. Renzo e Lucia fuggono dal loro paesino dal nome ignoto, mentre Tonio e Gervaso vi rimangono, con l’uno che minaccia l’altro, nel capitolo XI, di non dire nulla su quella notte degli inganni, in cui si sarebbe dovuto far trionfare l’amore con la menzogna.

I due fratelli sono all’inizio un’autentica coppia comica. Gervaso è stupido e ingenuo. Egli partecipa alla notte degli inganni senza capire la gravità e l’importanza dell’iniziativa, perché è il fratello che lo costringe ad essere complice. Tonio è di contro un uomo molto intelligente, sensibile e capace di trarre dalla sua buona azione persino un profitto. La sua partecipazione all’iniziativa gli permette, infatti, di estinguere con i soldi di Renzo un debito che aveva contratto con Don Abbondio e per cui aveva impegnato la collana di sua moglie a mo’ di caparra. La natura è stata dunque un po’ bizzarra, nell’assegnare i suoi doni ai due fratelli. Con Gervaso è stata poco generosa, con Tonio lo è stata troppo, tanto da averlo quasi dotato di due menti in una. È lo stesso Tonio a evidenziare questo punto, quando rassicura Renzo che il suo tonto fratello seguirà alla lettera il piano dell’inganno a Don Abbondio: «Gl’insegnerò io: tu sai bene ch’io ho avuta anche la sua parte di cervello».

La situazione cambia radicalmente nel capitolo XXXIII del romanzo. Con l’irruzione violenta della peste, la commedia dei due fratelli si trasforma in tragedia. Renzo torna nel suo paesino e incontra un Tonio devastato dal morbo. La peste ha danneggiato il suo cervello, che oltre a contenere la sua mente ospitava quella di Gervaso – del quale peraltro nulla sappiamo, se sia malato o disperso, se sia vivo o morto. Tonio non fa che ripetere con lo stesso tono assente e trasognato, incosciente di tutto ciò che gli accade intorno, le parole «a chi la tocca, la tocca», ossia biascica come un pazzo una formula vuota e tautologica a Renzo che gli pone implorante numerose domande. Egli si è insomma trasformato in un nuovo Gervaso. E Renzo alla fine smette di domandare per allontanarsi con la tristezza nel cuore dal suo vecchio amico, diventato un’ombra senza intelletto.

Sul piano della storia delle reazioni emotive alle epidemie, l’episodio ci mostra che un sentimento che si può provare durante la peste è lo sgomento di fronte alla sorte sciagurata degli innocenti, peraltro a volte anche molto intelligenti. Non c’è possibilità di riportare il corpo di Tonio in salute e di riportare la sua anima alla vivacità di prima. Se anche dovesse un giorno guarire spontaneamente, la vita di quest’uomo è ormai compromessa in peggio.

Le pur folli parole di Tonio rappresentano, d’altro canto, per una strana ironia, l’ultimo rigurgito della sua intelligenza brillante. Esse rivelano che, di fronte alla peste che devasta il paesino di Lucia e Renzo, non è possibile riconoscere un disegno intelligente, una logica sensata, un nesso casuale che almeno ci consoli della malattia che colpisce alcune persone. Dov’è la giustizia? Chiediamo a Tonio. «A chi la tocca, la tocca». C’è una ragione nella tragedia? «A chi la tocca, la tocca». Perché muoiono anche i puri e gli illuminati? «A chi la tocca, la tocca».

Si potrebbe certo obiettare che una logica in realtà c’è e consiste in un’imperscrutabile provvidenza divina, a cui in apparenza Manzoni presta fede. Il capitolo XXXVIII che chiude il romanzo ospita, infatti, un breve monologo di Don Abbondio, che interpreta la peste che colpisce l’umanità come uno strumento del buon dio che punisce i malvagi. «È stata un gran flagello questa peste; ma è anche stata una scopa; ha spazzato via certi soggetti, che, figliuoli miei, non ce ne liberavamo più». I “certi soggetti” a cui allude Don Abbondio includono Don Rodrigo – il malvagio che, dall’esordio del romanzo, aveva tiranneggiato sul paesino di Renzo e Lucia, impedendo il loro matrimonio. La peste non colpisce così a caso. Parallelamente all’incontro di Renzo con Tonio impazzito, Manzoni ci racconta la malattia che colpisce Don Rodrigo e lo porta a sua volta fuori di senno, facendogli avere nel corso della notte dei terribili e angoscianti incubi.

C’è però forse una tensione tra il fosco «a chi la tocca, la tocca» e l’esegesi provvidenzialistica di Don Abbondio, che stando al testo nulla sa della sorte del povero Tonio. Definire la provvidenza come una «scopa» appare anzi un modo discreto e sottile, da parte di Manzoni, per screditare il governo apparente di un buon dio. C’è qualcosa di grottesco nelle parole di Don Abbondio, che ledono la maestà divina e il suo supposto senso di giustizia. Il rapporto di dio con il mondo è presentato come analogo a quello di una pigra massaia che, dopo essere stata a lungo lontana da casa, vi trova polvere, ragnatele, acari, sterco di topo accumulatosi in anni, grumi di sangue rappreso, resti di insetti putrefatti, per gridare disgustata: «Ma che l’è ‘sto schifo?». E armata di una provvida scopa, la donna spazza via ogni cosa guasta, ma anche qualche bella farfalla che, senza sua colpa, era rimasta intrappolata nella tela di ragno e che, senza pietà, viene buttata in un lurido e maleodorante cesto dell’immondizia.

Di fronte all’interpretazione grottesca di Don Abbondio, le tragiche parole «a chi la tocca, la tocca» di Tonio risultano meno consolanti, ma purtroppo anche più sensate e sincere. È stato un semplice caso se Don Rodrigo è stato colpito dalla peste ed è stato perseguitato dagli incubi. Non è nemmeno chiaro, inoltre, se questa casualità sia il sintomo di una volontà divina. Quando frate Cristoforo mostra Don Rodrigo morente a Renzo (cap. XXXV), le sue parole non esprimono la stessa fiducia ingenua e incrollabile di Don Abbondio nella provvidenza, ma il dubbio. Il personaggio dice sempre «forse». Forse è dio che sta mettendo alla prova Don Rodrigo, forse è la preghiera di Renzo che salverà l’anima del tiranno: non lo sappiamo. Nel dubbio, pregare e mostrare umana misericordia è una scommessa alla Pascal che vale più dell’odio o del silenzio. Ma anche il frate generoso alla fine morirà di peste, sarà colpito da quella scopa divina che tutto spazza per riporta la casa del mondo nell’ordine e nel nitore. Un altro uomo puro e intelligente è massacrato dal provvido buon dio.

Lo sgomento di fronte alle morte degli innocenti durante l’epidemia preclude così ogni forma anche debole di consolazione. Forse c’è un unico modo per non restare prostrati da questo scenario. Don Rodrigo è colpito dagli incubi, ma cosa sogna Tonio nel suo delirio? Benché il testo non lo dica, mi piace pensare che, se l’uno immagina l’inferno nel suo sontuoso letto, l’altro fantastichi – stando appoggiato a una siepe di profumati gelsomini – sul paradiso. Come i personaggi di Beckett con gli arti mutilati, abbandonati e dimenticati da tutti, Tonio si abbandona forse a un flusso di pensieri, parole e immagini bellissime.

Il fatto che almeno in questa vita segreta di una mente per il resto perduta si possa rintracciare una differenza tra il buono e il malvagio, che condividono per il resto il destino di una morte insensata, mi sembra l’unica forma di giustizia poetica possibile. O quanto meno, essa appare meno grottesca e ipocrita della teologia che interpreta il mondo come una casa periodicamente spazzata dalla scopa della massaia di dio.


[L'immagine usata è la rappresentazione dell'incontro tra Renzo e Tonio di Francesco Gonini (1840)]