Sofocle e Seneca sulle passioni di Edipo


L’Edipo re è uno dei racconti antichi più misteriosi e complessi che abbiamo ereditato dal passato. Uno dei suoi elementi controversi si trova a circa metà della versione più tradizionale del mito, raccontata dalle due tragedie omonime di Sofocle e Seneca, che vale la pena sintetizzare.
Edipo tentò di sfuggire al fato che gli era stato rivelato dall’oracolo del dio Apollo. Egli ucciderà suo padre e si unirà a sua madre. Credendo che i suoi reali genitori fossero Polibo e Peribea, regnanti di Corinto che l’avevano cresciuto e amato, Edipo fuggì a Tebe. Qui egli uccise il suo vero padre Laio, incontrato a un crocicchio, liberò i Tebani dalla tirannia della Sfinge risolvendone il famoso enigma, ereditò il regno di Tebe e sposò la madre Giocasta. Questi fattori fecero scoppiare una peste, che come rivelò l’oracolo di Apollo poteva essere cancellata solo cacciando con l’esilio l’uccisore del vecchio re tebano. Edipo deciderà di indagare e di applicare la stessa intelligenza con cui risolse l’enigma della Sfinge, senza rendersi però conto di compiere così il fato da cui voleva fuggire. Dopo aver infatti scoperto col ragionamento di essere stato solo adottato da Polibo-Peribea, dunque di essere figlio di Laio e di averlo ucciso al crocicchio, causando al contempo il suicidio di Giocasta, il personaggio si accecherà e andrà in esilio volontario. Il fato che credeva di fuggire era stato in realtà inseguito con acume e accanimento.
La versione narrata da Sofocle e Seneca vuole che l’indagine si prolungò oltre l’effettiva scoperta dell’attività del fato. Il primo mostra Edipo che prima respinge la rivelazione dell’indovino Tiresia che Edipo stesso è l’assassino di Laio, poi accusa il genero Creonte di aver corrotto il profeta per costringerlo all’esilio ed ereditare al suo posto il governo di Tebe. Seneca restringe la peripezia al secondo episodio. Il suo Edipo re sopprime il confronto tra Edipo e Tiresia, che è sostituito da una scena in cui l’indovino compie sacrifici per divinare la causa della pestilenza di Tebe. La sostanza del racconto viene però mantenuta. Anche la versione senecana raffigura Edipo mentre accusa Creonte di voler complottare contro di lui, dopo che questi gli ha riferito di aver evocato dall’Ade lo spettro di Laio e di aver saputo del parricidio dalla sua voce ultraterrena. Sofocle e Seneca sono insomma concordi nel rappresentare un ritardo della scoperta della verità.
Ora, questo differimento è in sé problematico. Perché infatti Edipo non ascolta l’atroce rivelazione ultraterrena che il suo fato si è già adempiuto? Inoltre, con quali intenti Sofocle e Seneca ricorrono a questa bizzarra versione del mito? Due potenziali risposte sono le seguenti. Da un lato, in quanto drammaturghi, entrambi vogliono creare suspence nel pubblico. Il differimento sarebbe pertanto una scelta stilistica. Dall’altro lato, si potrebbe rispondere che Edipo è un “razionalista” che accetta solo la verità scoperta in via induttiva. La prima ipotesi è però troppo semplice, la seconda non si sposa bene col fatto che il personaggio accetta acriticamente l’originario oracolo di Apollo, secondo cui egli avrebbe ucciso il padre e sposato la madre. Se Edipo fosse stato un razionalista radicale, avrebbe schernito quest’antica rivelazione sin dall’inizio.
Esiste però anche una terza soluzione, che ci riporta al tema della storia delle reazioni emotive alle pandemie. Forse l’intelligenza di Edipo è offuscata da una forte emozione, che gli impedisce di accettare la rivelazione del fato.
Sofocle e Seneca ricorrono in effetti alla medesima cornice drammatica. Entrambi immaginano che la Tebe devastata dalla peste sia dominata da un identico campionario di passioni: paura e orrore di fronte al contagio, la pietà verso i cittadini, la sofferenza e il pianto per le sventure presenti. Essi ricorrono poi al medesimo epilogo. Giocasta si suicida in preda all’ira, Edipo si auto-esilia davanti allo sguardo atterrito e pietoso dei Tebani. È invece nelle scene del differimento che i due autori si situano a distanza. Sofocle pensa che la reazione di Edipo di fronte alla verità divina sia la stessa ira che ucciderà Giocasta. Egli del resto respinge arrabbiato Tiresia e Creonte che insistono sulla verità della rivelazione. Seneca crede invece che il differimento di Edipo sia dovuto a paura.
Numerosi studiosi pensano in realtà che Sofocle identificasse nell’ira la causa della tragedia tebana. Essi sostengono che è un Apollo adirato che scatena il terribile fato di Tebe. Segnalano poi che ci sono due prove testuali dell’azione determinante dell’ira. Esse sono tanto i vv. 806-809 dell’Edipo re, in cui Edipo stesso in effetti dice di aver ucciso Laio al crocicchio sulla spinta del furore, quanto i vv. 848-845 dell’Edipo a Colono, dove Creonte afferma che fu tale passione a condannare Edipo e la sua famiglia. Per quanto l’ipotesi possa trovare parallelo nella testimonianza dell’antica biografia di Sofocle, che nel cap. 20 riporta che il tragediografo imitava molto Omero, ossia il poeta che nell’Iliade descrisse l’origine della peste achea dall’ira di Apollo e di Achille, contro di essa ostano alcuni problemi. Non leggiamo mai nel testo che il dio scatena il disastro sotto spinta passionale. L’ira che induce Edipo a uccidere Laio non sembra poi responsabile della causa anteriore della vicenda: la fuga da Corinto. Infine, il passo dell’Edipo a Colono presenta appunto la versione di Creonte, che potrebbe aver equivocato la vera origine del disastro tebano. O in ogni caso, sarebbe metodologicamente errato studiare il significato di una tragedia ricorrendo agli estratti di un’altra tragedia. Mi sembra allora più prudente supporre che l’ira sia piuttosto un concomitante della riflessione sul fato. Forse Edipo si arrabbia perché trova assurdo sapere da Tiresia e Creonte che la sua fuga dall’oracolo di Apollo non è servita a nulla in assoluto.
È invece arduo capire perché Seneca si discosti volutamente dall’adattamento sofocleo e preferisca ricorrere alla spinta psicologica della paura. Edipo teme che il suo fato sia inevitabile e che Creonte abbia inventato tutto per rubargli il regno. Al contempo, egli confessa di volersi tutelare dalla paura di essere parricida alimentando un altro timore, ossia che il genero sia un usurpatore. Non a caso Edipo fa arrestare Creonte con la motivazione di preferire di accusare un innocente, che scoprirsi colpevole. L’ira del personaggio è d’altro canto recuperata da Seneca alla fine della vicenda. Edipo si accecherà con la stessa furia che induce la sua moglie/madre Giocasta a suicidarsi. Malgrado tale differenza, la logica senecana è la stessa di Sofocle. La paura non causa il fato, ma nasce dalla mancata accettazione del fato.
La terza soluzione che vorrei fornire è allora che sia Sofocle che Edipo vogliono sottolineare che la fatalità sia un’attività divina, che si può accettare solo mediante ragionamento e indagine razionale. È per ira o paura, ossia per un improvviso cedimento della ragione, che il personaggio non riesce a persuadersi del fato che, in cuor suo, egli sa essere inevitabile. In tal senso, la pestilenza è confusa da Edipo come un fenomeno contro cui adirarsi o da temere, quando in realtà essa è uno strumento nelle mani di dio per costringerlo a riprendere a indagare, a mettere la verità al di sopra del disastro in cui incorrerà. Ne segue anche che, se il personaggio fosse stato sin dall’inizio razionale fino in fondo, egli avrebbe assecondato e non fuggito il suo fato, confidando che nella catena delle cause si nasconda un sensato piano divino.
Questa conclusione certo lascia perplessi. Non è infatti chiaro perché il fato cruento di Edipo abbia ragione di esistere, vale a dire perché la divinità abbia voluto accanirsi su un singolo individuo e pretendere che egli assecondasse con placidità due terribili mali: il parricidio e l’incesto. Seneca in realtà ricorre al suo Stoicismo per dipanare il problema. Gli stoici erano convinti che l’unico bene sia la virtù e l’unico male il vizio, dunque che persino parricidio e incesto fossero realtà indifferenti, né benefiche né malefiche. Uccidere il padre e sedurre la madre sono atti che Edipo può compiere senza paura di danneggiare i genitori e sé stesso, soprattutto perché sono previsti da un fato divino che ordina provvidenzialmente il cosmo intero. L’ideologia stoica permette a Seneca di concludere con coerenza che la vera tragedia di Edipo non consiste nel parricidio, né nell’incesto. Essa risiede piuttosto nella refrattarietà del personaggio ad accettare il suo destino e ad agire come un uomo del tutto razionale, impassibile a ogni passione disordinata della mente.
Le ragioni di Sofocle restano invece oscure, a meno di non accettare un’esegesi stoicheggiante del suo Edipo re. Potremmo in tal caso ipotizzare che l’interpretazione di Seneca del mito sia una sorta di chiarimento degli intenti della tragedia sofoclea. Ma potremmo trovarci di fronte anche a una lettura rassicurante di un originale poetico greco che, invece, è volutamente enigmatico. Edipo – lo scioglitore di enigmi – li ha risolti quasi tutti, salvo il più essenziale: il suo stesso destino.
La conseguenza paradossale è che l’agente razionale sofocleo coincide con colui che, alla fine, arriva a negare la ragione. Se uno stoico come Seneca presume di conoscere la mente organizzatrice di dio, un poeta come Sofocle ne vede solo gli effetti e si arrende al cospetto di un grande mistero.

[L’immagine di copertina è Oedipus Rex di Max Ernst (1922)]