L'ansia del Nosferatu

Il regista e sceneggiatore tedesco Friedrich Wilhelm Murnau licenzia, nel 1922, la sua pellicola Nosferatu: una sinfonia del terrore, che è una libera riscrittura del romanzo epistolare Dracula di Bram Stoker. Il film in questione sarà a sua volta oggetto del remake di Werner Herzog, che avrà il nome di Nosferatu: il fantasma della notte (1979).

Entrambe le pellicole si distanziano dal romanzo di Stoker nell’introdurre l’elemento della peste nera. Il Nosferatu porta con sé dalla Transilvania delle bare colme di terra sconsacrata e di topi che trasmettono il morbo nella città in cui è ambientata la vicenda: in una immaginaria Wisborg per Murnau, nella città di Wismar secondo Herzog. Questo elemento che è appunto del tutto assente in Stoker costituisce l’analogo della malattia del vampirismo. Il Nosferatu di Murnau/Herzog non rende vampiri le vittime che dissangua. Il mostro porta l’infezione della peste e uccide le vittime di cui si nutre, senza portarle a una nuova esistenza demoniaca.

Anche le pellicole cinematografiche intrattengono, però, delle differenze. Tra quelle più vistose, si possono menzionare il diverso focus sulla reazione all’epidemia. Murnau rappresenta gli abitanti di Wisborg che danno la caccia all’untore, qui identificato con il personaggio di Knock (= il Renfield di Stoker), che era stato a suo tempo reso pazzo dal Nosferatu e internato in manicomio. Herzog mostra invece i cittadini di Wismar in preda a disorientamento, apatia e follia. Le loro reazioni alla peste includono il portare le bare dei morti della città incuranti di Lucy che pensa di aver trovato la causa della malattia, o l’abbandono a un festino tra i topi per godersi gli ultimi istanti di vita tra cibo, danze macabre, melodie meste. Abbiamo così due modi ugualmente plausibili di mostrare come una piccola popolazione reagisce alla catastrofe: la follia aggressiva, che esorcizza la paura di fronte al disastro distruggendo la presunta fonte del male, e la follia passiva, che porta a rassegnarsi e a lasciare inascoltate le voci di coloro che azzardano una risposta costruttiva. Anche se Murnau e Herzog presentano queste due forme di follia come esclusive, nulla impedisce di credere che esse sono in realtà due facce di una stessa passione. La pazzia è un “puro neutro”: può portare tanto alla distruzione quanto alla rassegnazione, che magari si alternano nella dimensione del caos.

Un’altra piccola differenza riguarda la diversa atmosfera tra le due pellicole. Murnau esalta con il suo racconto un cambiamento radicale: si passa da un inizio in cui la città di Wisborg è ridente e pacifica, a una fine in cui il luogo diventa conflittuale e violento. Il Nosferatu rovescia così il clima di partenza nel suo esatto contrario. Di contro, Herzog opera un cambiamento più sottile. Prima ancora che arrivasse il Nosferatu, la città di Wismar era già colma di tristezza, di cittadini che usano voci sussurrate e gesti discreti. La peste cambia allora solo la qualità della tristezza, ne rivela il suo lato oscuro e non più quello posato, luminoso quasi. In un certo senso, dunque, il Nosferatu non trasforma Wismar. Porta la città ad acquisire una sfumatura triste che già covava al suo interno.

Ma la terza e più marcata differenza è la terza, che riguarda la psicologia stessa del Nosferatu e le ragioni del suo operato. Murnau lo presenta come una creatura che fa il male assoluto per gusto del male. L’agire del Nosferatu è quindi il risultato della sua natura che tende a distruggere senza un motivo logico. Murnau evidenzia questo punto in alcune sequenze che fanno da preludio all’arrivo del vampiro, per esempio quella in cui van Helsing studia con alcuni suoi allievi il comportamento della pianta carnivora. Se questa uccide la mosca che si intrufola nella sua bocca, è appunto perché questo è il suo innato comportamento naturale. Herzog lavora invece su un Nosferatu che – benché certo malvagio – ha almeno un motivo. Si tratta dell’ansia e della noia dell’immortalità. Nel suo primo incontro con Jonathan Harker, infatti, Nosferatu confessa il suo taedium vitae, il fatto che i secoli non hanno portato alcun significativo obiettivo per cui vivere, nessun amore da coltivare e difendere tra gli abissi del tempo. Ma non potendo morire, egli deve convivere con questa sua tragica condizione e variare in qualche modo la sua noia/ansia della ripetizione. Ora, la scelta di portare la peste dentro Wismar rappresenta una variazione tra le tante.

Ecco allora che, dal Nosferatu di Murnau che fa del male perché ha il fine di portare nuovo male, si passa al Nosferatu di Herzog che lo fa a causa di un male interiore, che insomma è malvagio per cecità verso il bene. Solo in Lucy, la moglie di Harker, il mostro crede per un momento di trovare quell’amore che tanto desidera e che forse può dargli la pace. Nosferatu finirà tuttavia per distruggere ed essere distrutto da questa sua passione, perché la donna lo indurrà a restare al capezzale del suo letto e a succhiare il suo sangue fino all’arrivo dell’alba. E dopo essere risorto nel corpo di Harker, egli considererà anche questa sua esperienza erotica come un semplice diversivo. Il Nosferatu cavalcherà nel vuoto verso il suo castello in Transilvania, senza che la sua anima ferita sia guarita, e mediterà al suo interno altre distrazioni alla noia, nuovi indicibili orrori.

Le pellicole di Murnau/Herzog sono in conclusione interessanti perché mostrano che un’emozione può essere la causa e non solo l’effetto di un contagio. Il Nosferatu mostra che i mali che viviamo possono nascere da potenze sovrannaturali inquiete, che la distruzione può essere paradossalmente una perversa ricerca nell’agente patogeno di amore e quiete.


[L'immagine è un fotogramma della scena del banchetto tra i topi dal film di Herzog]