Peste di luce? Irradiazione tra Dante e "Lenz Fondazione"
Dante fa riferimento alla peste in un solo luogo della Divina Commedia: nei vv. 58-66 del canto XXIX dell’Inferno. Essi descrivono il supplizio che patiscono i falsari, a cui è dedicato il resto del canto XXIX e tutto il canto XXX. Più nello specifico, i versi sopra citati paragonano i peccatori che meritarono l’inferno per aver falsificato qualcosa agli appestati di Egina, che Ovidio aveva descritto nel libro VII delle sue Metamorfosi. Secondo il poeta pagano, gli abitanti della città offesero Giunone e vennero decimati dalla peste, con la sola eccezione del re Eaco, che pregò Zeus di ripopolare la terra. La preghiera venne poi esaudita. Zeus fece sì che le formiche che camminavano vicino alla quercia sotto cui Eaco sedeva si trasformassero in esseri umani e ripopolassero l’ora disabitata Egina.
Dante non crede che Ovidio sia un testimone affidabile per la parte relativa alla trasformazione. Il richiamo alle Metamorfosi serve ad ammantare il girone dei falsari con l’emozione dominante della tristezza. Dante scrive che la vista dei tormenti di tali peccatori crea «maggior tristizia» di quella che uno spettatore antico avrebbe potuto provare contemplando l’epidemia di Egina. Inoltre, la citazione di Ovidio mostra che i falsari sono condannati a patire una qualche malattia. Gli alchimisti o falsificatori di metalli soffrono la scabbia eterna (XXIX 67-137). I falsari di persone patiscono la rabbia (XXX 1-48). I falsificatori di monete sono consumati dall’idropisia (XXX 49-90). Infine, i falsari di parola sono colpiti dalla febbre (XXX 90-129).
In una manciata di versi e con la reminiscenza ovidiana, dunque, Dante sottolinea che il girone dei falsificatori è, in un certo senso, un cerchio di appestati. Il falso che essi irradiarono in vita si è ora incarnato in una malattia eterna, che genera un senso di diffusa tristezza. A ciò va aggiunto il fatto che il girone dei falsificatori è collocato in una «oscura valle». I peccatori non sono quindi solo malati, ma anche posti in un enorme lazzaretto dove non filtra il minimo raggio di luce.
Molto più avanti, nel canto XXXIII del Paradiso, Dante ha la visione beatifica di Dio. Le emozioni che vengono descritte qui sono il contraltare dei tormenti dei falsari del canto XXIV dell’Inferno. Anzitutto, qui ci troviamo di fronte alla presenza della verità assoluta e non del falso. In secondo luogo, la condizione di Dante che guarda in faccia Dio è quella di chi leva gli occhi «più alto verso l’ultima salute» (v. 27), ossia nella condizione somma di benessere e piacere. La tristezza del falso è vinta dal fuoco dolcissimo del vero, come il poeta non manca di notare in più luoghi («sommo piacer» del v. 33; il «dolce» della visione del v. 63; «mi sento ch’io godo» del v. 93). Infine, il canto XXXIII del Paradiso è il luogo in cui tutto si avvampa di luce anomala, diversa dalla materiale. Se quest’ultima diventa più sostenibile quando è guardata di scorcio e mai direttamente, la lucentezza divina risulta paradossalmente tanto più nitida, quanto più la si fissa davanti e si arriva alla fonte (vv. 76-84).
D’altro canto, anche questa luce culmina nel buio. Dante conclude il canto e la Divina Commedia con un «fulgore» che colpisce la sua mente e impedisce sia all’immaginazione che al linguaggio di operare ancora (vv. 140-141). L’intelletto è bloccato. Non sa retrocedere o avanzare.
Questo percorso di Dante è stato drammatizzato nel 2017 dall’installazione performativa Paradiso. Un Pezzo Sacro di Lenz Fondazione. Il lavoro cerca però di immaginare che cosa può aver provato l’intelletto bloccato nel suo percorso, completamente accecato dalla luce divina. La prima metà del lavoro è una resa scenica del canto XXXIII che chiude la Divina Commedia, che comincia con la preghiera di san Bernardo alla Vergine (vv. 1-39), mostra Dante che è trascinato dalla visione (vv. 40-108) che gli rivela il mistero della Trinità sotto l’immagine di tre cerchi concentrici (vv. 109-138), si chiude con la folgorazione finale (vv. 139-145). Il seguito del lavoro di Lenz Fondazione prova invece a calarsi nella mente dantesca frastornata, mostrando che essa non ha in realtà smesso di viaggiare. Oltre l’infinito, c’è un altro infinito. Dopo la luce che irradia tutto il tempo e lo spazio, accade che la mente si fonda con la luce, il tempo e lo spazio. L’Io diventa Dio.
Anche questo percorso avviene certo per gradi – come graduale era stato il viaggio di Dante che passa dall’Inferno al Purgatorio e da questo al Paradiso. Lenz Fondazione immagina che, dopo aver avuto una visione diretta della Trinità, il poeta incontri alcune sante: novelle Beatrici che lo guidano verso un percorso non più espressivo o affermativo, bensì negativo e ascetico. Il poeta che ha cantato moltissimi versi cercando di dire l’indicibile e di immaginare l’inimmaginabile ora deve lasciarsi attraversare completamente dalla luce in cui è immerso. Il suo compito (o non-compito) è farsi vuoto, cancellare il desiderio e il gusto, il piacere e il volere, affinché sparisca la separazione tra soggetto umano e oggetto divino. Nel mentre accade tutto questo, inizia a stagliarsi sullo sfondo dello spazio scenico un cerchio di luce, dove si intravede un feto che comincia a prendere forma. L’ascetismo a cui le sante esortano Dante è dunque analogo al processo attraverso cui il figlio si lascia plasmare interamente dalla madre. Il bambino che è nel feto non desidera, non gusta, non vuole, non gode di nulla. Ed è questa sua condizione di vuoto che gli consente di essere una sola cosa con la madre. L’Io si trasforma così in Dio perché non pone più alcuno schermo con questo ente trascendente. La luce è per il poeta come un feto che lo plasma a forma e vita nuova.
C’è poi un elemento interessante da valorizzare che emerge dal monologo della prima delle sante incontrate da Dante. Il suo nome è Sandra, che paragona la visione beatifica di Dio a una «piacevole piaga». Lenz Fondazione propone indirettamente, pertanto, che esiste una “peste” buona del vero. Chi si lascia “contagiare” dalla piacevole visione divina può trasmettere questo piacere ad un altro. Ciò in Dante ovviamente non è scritto – e sarebbe vano cercarlo nel canto XXXIII del Paradiso. Nondimeno, è forse questo uno dei sensi segreti e taciuti del suo raccontare. Dante narra la sua impotenza a penetrare i misteri di Dio, ma insieme anche l’amore e il piacere che lo scacco della ragione porta con sé, per irradiare per contatto e infusione amorevolezza/piacevolezza nel lettore (o, nel caso della creazione di Lenz Fondazione, nello spettatore). Il poeta è un untore della luce e del vero, così come i falsari del XXIX canto dell’Inferno lo erano dell’oscurità e del falso.
L’esito di questo lungo ragionamento a cavallo tra Dante e Lenz Fondazione è dunque che possa esistere, in un certo senso, una peste di luce. Non tutti i morbi sono allora necessariamente cattivi. Se è una malattia perdere la mente per essersi esposti troppo lungamente alla luce della divina trascendenza, allora gli appestati della poesia sono più sani dei sani, i mistici infanti che balbettano di fronte all’assoluto sono più dotti ed eloquenti di chi domina tutte le lingue umane, troppo umane.
[L'immagine di copertina è una foto di Francesco Pititto della creazione performativa Paradiso. Un Pezzo Sacro di Lenz Fondazione]