“Anche se mi uccide, avrò fiducia in lui”. Giobbe e la Nube purpurea di Shiel

Nel gruppo di opere dell’Antico Testamento, il libro di Giobbe spicca per essere uno dei testi più controversi e inquietanti. Esso rappresenta un personaggio devotissimo a un Dio che mette alla prova la sua fede, privandolo temporaneamente di tutto ciò che rende l’esistenza buona, o almeno tollerabile. Persuaso da hassatan, che non va confuso con il Diavolo o il “Satana” della tradizione neo-testamentaria, ma identificato con un ministro divino che ha il compito di accusare gli individui di falsa devozione, Dio colpisce Giobbe per due volte per saggiarne la pietà morale e religiosa. Anzitutto, egli distrugge in unico giorno le case, le ricchezze, i figli e le figlie che il suo devoto fedele aveva accumulato in anni di attività. Successivamente, Dio lascia che hassatan colpisca Giobbe con una malattia che lo deforma dalle punte dei piedi al volto e lo costringe a grattarsi senza sosta con un coccio.
In nessuno dei due casi, però, l’uomo perde la fede nella giustizia divina, né egli ammette di aver commesso qualche colpa che ha contrariato la divinità, malgrado alcuni suoi amici sacerdoti lo istighino a confessarlo. Giobbe maledice la vita e si augura di morire, considera vane le cose e le persone che sudano sotto il sole, arriva persino a dubitare di riconoscere dei segni che Dio governi con giustizia, difenda i devoti e punisca i malvagi. Egli insomma descrive un universo colmo di infelicità e vuoto di una riconoscibile provvidenza divina. Nonostante questo, però, Giobbe dichiara la sua fede all’estremo, arrivando a dire nel versetto 13.15 di conservarla persino se Dio dovesse ucciderlo (“Anche se mi uccide, avrò fiducia in lui”). Sarà solo con un’epifania finale che la divinità libera il suo devoto dalle false accuse e, consapevole ora della sua sincera devozione, gli restituisce il doppio di quello che gli aveva tolto.
La storia di Giobbe non va considerata un unicum. Essa anzi appartiene al genere della riflessione sul “giusto sofferente” che, a partire dai Sumeri, riflette su un tema decisivo: la difficoltà di stabilire in modo chiaro e inequivocabile se un essere umano abbia o no commesso una colpa verso Dio, in altri termini se le sue sofferenze siano meritate e discendano da un intervento divino. I sacerdoti amici di Giobbe – che ignorano la cornice in cui hassatan persuade la divinità a saggiare il fedele – sono convinti dal loro punto di vista di poter riconoscere la colpevolezza di qualcuno. Il lettore del libro è invece invitato a un’attitudine meta-narrativa. Come si suol dire, le apparenze ingannano. Il giusto può sembrare infame, mentre il malvagio può indossare la maschera fittizia dell’individuo amato da tutti gli dèi.
Dopo il preambolo iniziale in cui viene menzionata, la malattia di Giobbe non viene comunque più esaminata nel dettaglio, ma resta solo sullo sfondo. Troviamo infatti solo tre altre occasioni in cui essa è di nuovo richiamata. La prima volta è nel versetto 5.19, in cui l’amico Elifaz cerca di convincere Giobbe che è il riconoscimento della colpa commessa contro la divinità a costituire la medicina del suo morbo. Dio «fa la piaga e la fascia», ossia fa ammalare il malvagio e lo cura se si redime. Una seconda menzione è in 9.17, dove Giobbe dichiara che le piaghe inviate dalla divinità sono «senza ragione». Infine, in un estratto del suo discorso (34.6), l’amico Eliu attribuisce a Giobbe il pensiero che «inguaribile è la mia piaga benché senza colpa».
Tali elementi insieme sono tuttavia sufficienti per descrivere la passione che anima il personaggio colpito dalla malattia. Giobbe si distanzia dalla tradizione teologica, qui rappresentata dai discorsi dei suoi amici, che vuole che ogni malato è in difetto verso la divinità e quindi che la sua naturale reazione emotiva dovrebbe essere il senso di colpa. Il ventaglio delle emozioni include però tutto (dolore fisico e mentale, disperazione, inadeguatezza, ecc.), tranne che questa passione. Entro tale contesto, non è allora un caso che Giobbe qualifichi la sua malattia come «senza ragione». Il morbo di una persona che sa di essere giusta e non abbandona la sua fede verso Dio è un autentico mistero. Nel libro di Giobbe, dunque, la passione della paura della colpa lascia spazio all’angoscia di fronte all’assenza apparente di logica nella mente divina.
La malattia di Giobbe non pare essere di tipo infettivo. Quanto meno, gli amici che vengono prima a consolare e poi a cercare di far ravvedere il personaggio non sembrano temere un contagio. Aldilà della spiegazione che semplicemente Dio non ha inviato sulla terra il principio di un’epidemia, si può spiegare l’assenza di timore secondo il sistema di credenze che abbiamo poco fa sintetizzato. Se la malattia di Giobbe è frutto di una sua colpa, allora i suoi amici non hanno da temere di essere contaminati, perché essi si ritengono puri e senza peccato. L’uomo potrà solo contagiare altri malvagi e non già coloro che conducono un’esistenza irreprensibile.
La malattia di Giobbe si trasformerà invece in una pandemia nel romanzo fantascientifico La nube purpurea dello scrittore Matthew Phipps Shiel (1901). È infatti con le parole “Anche se mi uccide, avrò fiducia in lui” di Giobbe 13.15 che il protagonista Adam Jeffson conclude la sua narrazione apocalittica. Il suo è il racconto di un’estinzione quasi definitiva dell’umanità ad opera appunto di una misteriosa nube purpurea, che diffonde un contagio mortale in ogni specie vivente e lascia sui cadaveri dei morti uno strano odore di pesco in fiore. Ciò che nell’Antico Testamento è il dramma di un individuo si trasforma così in una tragedia collettiva. Non si sa perché il flagello della nube purpurea venga inviato e uccida anche esseri innocenti, come gli animali e i bambini, che di per sé non hanno colpa. La vita stessa sembra poi essere identica a quella descritta da Giobbe: un universo vuoto di Dio, infelice e dominato da forze oscure che portano unicamente distruzione. Tuttavia, non per questo Adam perde fiducia nella luce e nel bene. L’estinzione di massa può essere una prova con cui la divinità saggia i devoti, come l’orefice misura la purezza dell’oro dentro il fuoco.
Come il suo analogo vetero-testamentario, dunque, Adam non perde la fede. In un certo senso, anzi, il suo sforzo è anche più titanico di quello di Giobbe. Quest’ultimo deve scontrarsi con l’assenza di logica solo della sua sofferenza e, in ogni caso, la sua salvezza deriva da un’epifania inaspettata di Dio. Adam deve invece far fronte al mistero del dolore e della morte di tutti con le sue uniche forze. Dopo aver compiuto alcune azioni folli e senza senso, quali il dare fuoco alle città deserte e la costruzione di un enorme opulento palazzo che non verrà mai abitato, infatti, il personaggio incontra una giovane donna sopravvissuta e decide di generare con lei una nuova umanità. È allora l’amore di un altro essere umano che salva la nostra specie e la decisione che vale la pena correre il rischio di intraprendere una nuova palingenesi. Dio può forse aver quasi estinto la nostra specie con un’epidemia, ma non lo ha fatto perché si è macchiata di molte nefandezze e ingiustizie. L’umanità merita di essere ripopolata, magari di diventare – dopo la tragedia e come nel finale del libro di Giobbe del libro originario – doppia per quantità, di tradursi un monumento della passione della fiducia e della costanza.
Queste riflessioni certo risultano pienamente convincenti solo per chi abbraccia già la prospettiva che una divinità mette alla prova i suoi devoti, che consente di riconoscere dietro l’illogicità di una tragedia apparente un disegno preciso e razionale di giustizia. Per chi vi dubita, però, e giustamente, il discorso può comunque valere per quel che riguarda l’abbandono del senso di colpa. Nessuna pandemia va letta come il sintomo di processi storici e sociali corrotti, un evento di cui ciascuno di noi si deve rimproverare e ritenere responsabile. La tragedia pandemica è solo in parte dovuta alle nostre azioni e al nostro sistema di vita, che certo si può modificare per impedire un suo proliferare più violento o veloce. Resta che la causa principale consiste soprattutto in fattori «senza ragione» e inesplicabili, che forse il fedele chiamerà Dio, il non-credente denominerà “mistero”.


[Si ringrazi
a Davide D'Amico per aver letto una prima versione di questo testo, dando alcuni consigli di miglioramento]