La bellezza e il bene della pandemia?

Un uomo si aggira inquieto per la foresta e incontra un leone che, mosso dalla fame, lo insegue per

divorarlo e spolparne le ossa. Lo sfortunato cerca prima di fuggire, poi di difendersi con un ceppo

che trova sul terreno, infine – buttato a terra da una possente zampata – piange e si dimena dal

dolore, fino a urlare quando la bestia affonda le fauci nel suo petto. L’uomo sente distintamente lo

strappo delle carni e il fiato del leone sul volto. Gradualmente cala il buio, avviene la perdita di

coscienza di sé che costituisce il misterioso passaggio dalla vita alla morte.

Come dovremmo valutare quanto accade a quest’uomo? Non si potrebbe certo negare che l’evento è

stato brutto e cattivo “per lui”, così come per i suoi cari. Vivere più a lungo sarebbe stato preferibile

per quest’uomo e la sua morte ha probabilmente danneggiato la stabilità psicologica o anche

economica di un genitore, un figlio, una moglie/compagna.

Si può però per questo anche concludere che il leone è stato brutto e cattivo “in sé”? Più in generale,

si può considerare da una prospettiva non-antropocentrica la morte dell’uomo come una bruttura e

un male oggettivo? Forse la risposta alle due domande è negativa. Se l’uomo non fosse stato in

pericolo di vita, avrebbe potuto notare quanto il leone sia maestoso e proporzionato, dunque bello,

così come ricavare da questa bellezza un bene, per esempio il piacere della contemplazione estetica.

Da un punto di vista universale, di contro, la morte di questo individuo va purtroppo razionalmente

considerata come trascurabile. La natura ha fatto il suo corso, spingendo il leone a divorare la prima

preda accessibile per placare la sua fame.

Proviamo adesso ad applicare la stessa logica dal piccolo esempio del leone al grande accadimento

della pandemia da Coronavirus. Se interpretiamo l’evento dal nostro punto di vista, non potremmo

ovviamente che concludere che esso sia brutto e cattivo “per noi”. Il sistema sanitario rischia di

collassare, uomini e donne perdono il lavoro senza alcun ammortizzatore sociale, le economie di

ogni paese subiranno danni ingenti, diritti fondamentali correranno il rischio di essere cancellati, la

cultura e la ricerca potrebbero sparire. Questo incompleto elenco è sufficiente per concludere che è

evidente che ci troviamo davanti a una catastrofe umana: una tragedia da cui l’umanità si potrà

riprendere a fatica, dopo molto tempo ed enormi perdite.

Allo stesso tempo, però, dobbiamo anche spostare lo sguardo dal nostro ombelico e tentare con

lucidità di rispondere alla seguente domanda. Poiché il Coronavirus è innegabilmente un male e una

bruttura “per noi”, lo è forse anche “in sé”? Bisogna forse avere il coraggio di dire che, no, il nesso

non è necessario, né conseguente. Il Coronavirus può essere anche letto come “in sé” né buono né

cattivo, né bello né brutto. È una delle tante espressioni della natura che si disinteressa dei nostri

valori o giudizi morali, delle economie e dei licenziamenti, della salute e della chiusura di musei,

centri di ricerca o teatri. Il virus è un ente naturale che – come ogni altro – cerca di conservarsi e

propagarsi, traendo forza da altri esseri. E come uno sguardo estetico al leone ci apre, forse, alla

bellezza della forma dell’animale e al piacere della sua contemplazione, nulla impedisce di

applicare lo stesso principio al Coronavirus. Quest’ultimo è bello nella sua struttura e piacevole da

indagare, perché molte sue caratteristiche (genesi, composizione chimica, comportamento, ecc.)

sono solo in parte state capite, o sono ancora in tutto da scoprire.

Sia chiaro che con questa considerazione non si intende assolutizzare il pensiero opposto a quello

antropocentrico. Come sarebbe sciocco sostenere che il Coronavirus sia “per sé” un male o una cosa

brutta perché lo è “per noi”, così sarebbe altrettanto sbagliato sostenere che sia bello e buono “in

sé”. Il piacere e la bellezza che ricaviamo dalla contemplazione di questo ente esistono perché

dipendono sempre da noi, dal guardarlo sotto il profilo estetico e non da quello pratico. Più nello

specifico, insieme all’antropocentrismo che fa del male e dell’orrore che stiamo attraversando la

misura di tutto il reale, facendoci vedere il mondo attuale come una cloaca o una prigione, bisogna

guardarsi da due estremi pericolosi: il nichilismo e il provvidenzialismo.

Nichilista è infatti la prospettiva che nega anche quel poco di buono/bello o indirettamente positivo

che è ricavabile dall’esperienza della pandemia. Tutto è vano, incluso ciò che sopportiamo in attesa

di tempi migliori. Benché sia forse la prospettiva più lucida e conseguente, essa va trattenuta per

non negarci almeno la consolazione dell’esperienza della bellezza e del piacere.

Il provvidenzialismo può invece essere interpretato come una sorta di “nichilismo mascherato”.

Secondo un luogo comune a molti pensieri teologici e religiosi, i provvidenzialisti potrebbero

sempre sostenere che il Coronavirus sia buono e bello “in sé”, perché causato da una natura

razionale, o forse persino da un dio che intende amorevolmente beneficiarci. Essi potrebbero ad

esempio affermare che la pandemia sia un modo per allenarci alla pazienza e alla frugalità, per far

rifulgere le virtù e il bene sui mali che ci vengono destinati come prova, per punirci di colpe che

abbiamo commesso. Il provvidenzialismo si confuta tuttavia da sé e, a confronto con l’esperienza

concreta, rivela il suo contenuto stupido e immorale. Basta richiamare un solo accadimento senza

alcuna ragione o scopo edificante, così come la morte di pochi innocenti, per smentire che quanto

sta succedendo a causa del Coronavirus dipenda da un agire provvidenziale e divino.

La via da seguire è forse allora quella mediana. Non bisogna guardare alla nostra tragedia né troppo

da vicino, gridando alla vanità e al nichilismo cieco, né da troppo lontano, negando che quello che

accade sia un male o una bruttura “per noi”.

Tale via mediana è stata a mio avviso descritta bene da Lucrezio, poeta epicureo autore di un poema

in sei libri Sulla natura delle cose e che, peraltro, crede che gli dèi esistano, ma non si occupino di

noi. All’inizio del volume III del suo capolavoro, egli afferma di non sapere, davanti alla visione

della natura, «quale divino piacere e orrore mi afferra». Ecco che allora il bene e il male, la bellezza

e l’orrido, il godimento e il dolore, si trovano a essere fusi in un corpo solo, nel seno stesso della

natura. Il Coronavirus e il leone sono una piccola parte di quel misterioso insieme della natura che

procura orrore alla parte pratica e attiva di noi stessi, ma che al tempo stesso invadono la parte

contemplativa del nostro sé con un immenso piacere.

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