La peste in dio. Un dilemma teologico-morale negli Stoici e in Spinoza
L’ipotesi teologica del panteismo vuole che dio non governi la natura, ma coincida con questa (deus sive natura). Tale teologia trova i suoi campioni negli Stoici e in Spinoza, che condividono una dottrina decisiva. Ogni processo naturale – macroscopico o macroscopico che sia – e ciascun essere vivente sarebbe un “modo” della sostanza divina, che pervade la materia e la orienta verso l’esito più razionale possibile. Il panteismo implica così la credenza nella provvidenza. Tutto ciò che è, è buono e ragionevole. Tutto ciò che muta, muta perché vengano massimizzate la bontà e la ragione nell’universo.
Ora, un evento come la pandemia comporta un immediato pericolo per il panteismo. Se gli eventi in senso lato sono una modificazione della sostanza divina, allora lo sono anche le pestilenze con i disastri e le ingiustizie che esse provocano – come la morte degli innocenti o di quanti soccorrono gli ammalati. Ciò comporta un duplice problema. Da un lato, la provvidenza è messa in dubbio, dato che è difficile riconoscere quale sia la ragione e la bontà di una pandemia. Dall’altro lato, viene compromessa l’integrità della sostanza divina. Se infatti gli esseri umani sono modi o parti di dio, ne deve seguire che la divinità si ammali di peste, vomiti sangue, sia coperto da pustole, infine muoia. Si mostra insomma che la divinità sembra essere malvagia e mortale insieme.
Di fronte a una simile difficoltà, gli Stoici e Spinoza trovano la medesima soluzione. Coloro che si sdegnano per i disastri procurati dalle epidemie lo fanno erroneamente, perché formulano cattive opinioni su cataclismi del genere. Essi non vanno aldilà del loro sguardo umano, troppo umano, per cui non si accorgono che le pestilenze sono mali per l’umanità e danni per l’incolumità divina soltanto apparenti. Se gli sdegnosi penetrassero gli abissi della mente di dio, si accorgerebbero per prima cosa che i “mali” sono concetti relativi a noi: parti di un intero del quale non vediamo che una piccola parte. La visione dell’universo mostrerebbe, invece, che eventi come l’epidemia sono passeggeri, non impediscono ai beni di trionfare e non vanno esagerati. In secondo luogo, lo sforzo di vedere i cataclismi sub specie divinitatis rivela che la loro violenza distruttrice è davvero poca cosa e non intacca la sostanza divina. Proviamo infatti a immaginare una piccolissima bolla che si forma sulla pelle del nostro corpo. I microbi che compongono una comunità sull’esiguo lembo di epidermide crederanno che questo bollicina è una catastrofe e che il mondo che abitano non reggerà alla violenza del suo urto. L’uomo o la donna che vede apparire tale punticino arrossato vi presterà invece poca attenzione, o addirittura non si accorgerà della sua discreta esistenza.
Soltanto il saggio che riesce a correggere questo errore concettuale riuscirà a credere alla ragione e alla provvidenza universale. La mente di tale individuo eccezionale non si sgomenta davanti a un’epidemia, anzi ricava gioia al pensiero che un evento del genere è nulla e gode nel precipitare dentro la sostanza divina che resta graniticamente illesa sotto la virulenza del morbo. La peste procura così infelicità e malessere agli stolti, ciechi all’autentico volto della natura, mentre si rivela essere una fonte provvidenziale di passioni positive e di felicità per il vero sapiente.
A fronte di tale dottrina comune, però, gli Stoici e Spinoza si differenziano per un punto decisivo. Gli uni ammettono una teleologia dell’epidemia, in altri termini affermano che questa ha luogo per un fine utile alla specie umana. Lo stoico Cleante affermava che, in assenza di catastrofi come le pandemie, la nostra specie non avrebbe potuto mai ricavare il concetto dell’onnipotenza divina e, per estensione, della sua capacità di ordinare tutto al meglio. Il disagio arrecato dalla pestilenza è allora compensato da un accrescimento di conoscenza. Nell’opera Sulla giustizia, invece, lo stoico Crisippo commenta i vv. 242-243 del poema Sulle opere e i giorni di Esiodo («A quanti dal cielo Zeus manda dolori / carestia insieme a pestilenza: interi popoli andarono perduti») scrivendo che il poeta «attribuisce agli dèi questo comportamento, perche, davanti alla punizione dei malvagi, gli altri ne facciano tesoro e siano meno propensi a seguirne l’esempio». Infine, Seneca salva la provvidenza e l’integrità della sostanza di dio con un’altra dottrina stoica: la cosiddetta apocatastasi o distruzione/rigenerazione ciclica del mondo. La divinità devasta periodicamente il cosmo con le pestilenze per far risorgere l’universo più bello e sano di prima. Si può dire, insomma, che gli Stoici rilevano che la pestilenza è in realtà un bene per noi. Se potessimo appunto guardare l’intero cosmo sub specie divinitatis, come i saggi, noteremmo la finalità grandiosa, benefica, giusta ed eroica che si nasconde dietro le pestilenze che falciano comunità intere.
Spinoza si appropria di contro del panteismo stoico, ma respinge le cause finali costruendo un’anti-teleologia dell’epidemia nella lunga appendice alla parte I della sua Etica. La critica al finalismo si parte dall’analisi di un automatismo cognitivo degli esseri umani. La nostra specie ambisce per natura al proprio utile e agisce sempre in vista di uno scopo. Da questa tendenza della nostra mente, discende anche la tentazione di leggere ogni evento che torna a nostro vantaggio come allestito per il nostro benessere – anzi, dal momento che non siamo stati noi a creare queste meraviglie, ne deve seguire che è stata un’intelligenza superiore a farlo, e questa non può essere altro che la mente di dio. Contro questa prospettiva, Spinoza obietta anzitutto che essa confonde la causa con l’effetto, l’anteriore con il posteriore, l’imperfetto con il perfetto. Il fine che dovrebbe essere il prodotto della natura ordinata da dio è contraddittoriamente presentato come il motivo che induce la mente divina è indotta a creare od ordinare tutto. Ma ciò implica che dio abbisogna di creare e che, finché la creazione non sarà conclusa, esso sarà infelice o mancante di qualcosa: il che distrugge il concetto stesso di divinità. Spinoza recrimina, inoltre, che questa stessa tendenza o tentazione a riconoscere dei fini dove non sono creare la falsa impressione che esistono i mali, di cui stentiamo a capirne la ragione e la bontà. Se si elimina però l’impressione che la natura produce qualcosa a beneficio nostro, sparisce anche la credenza che le pandemie sono malvagie, ingiuste, terribili. La peste si dà e basta – è frutto della necessità di dio che non si preoccupa delle conseguenze che potrebbero capitarci, e tuttavia rimane provvidenziale o divina perché resta uno dei molti “modi” con cui la divinità si estrinseca nell’ordine perfetto dell’universo.
A prescindere che si ritenga convincente la spiegazione stoica o quella spinozista dell’epidemia, si è mostrato che non è assurdo leggere tale evento distruttore in ottica positiva. Dove lo stolto miope riconosce ingiustizia e catastrofe, lo sguardo acuto del saggio trova un’occasione di estasi. È dolce naufragare nella contemplazione della natura, che appare a volte nera solo perché l’occhio umano è ferito dalla luce troppo accecante della voragine di dio.
[L'immagine di copertina è il quadro Et in Arcadia Ego del Guercino]