Un campionario di passioni. La peste in Tucidide e Lucrezio

Una delle più antiche e dettagliate descrizioni di un’epidemia si trova nei §§ 47-54 del libro II della Guerra del Peloponneso dello storico Tucidide, che fu testimone diretto e anzi un sopravvissuto della violenta peste che nel 430 a.C. colpì la città di Atene. Circa quattro secoli dopo, l’episodio tucidideo sarebbe stato imitato dal poeta epicureo Tito Lucrezio Caro, nei versi conclusivi del libro VI del suo poema Sulla natura delle cose. Entrambi i resoconti forniscono un campionario delle reazioni emotive che i cittadini provarono di fronte al morbo distruttore.

È ovvio che le passioni dominanti furono la sofferenza e la paura. Meno banale è invece constatare che Tucidide e Lucrezio sottolineano che queste emozioni assunsero molte forme. Si soffriva certo per il male fisico, il cui sintomo più terribile era rappresentato dai forti bruciori interni che spingevano gli infetti a bere di continuo e a gettarsi nudi nell’acqua gelida, così come per l’angoscia della scoperta di aver contratto il morbo. Altra sofferenza era però quella che prendeva i familiari delle vittime che magari si ristabilivano, ma perdevano la memoria di ogni cosa, o quella patita per l’insonnia, o ancora quella più subdola dei sopravvissuti che riuscivano a salvarsi perdendo una o più parti del corpo ormai compromesse dalla peste (occhi, dita delle mani e dei piedi, genitali).

Si aveva poi paura, oltre che per l’incolumità propria e altrui, anche per il silenzio delle arti umane e delle realtà divine. Tucidide e Lucrezio insistono, da un lato, sullo sgomento che presero gli Ateniesi che vedevano i medici muti di fronte al morbo, incapaci di trovare una cura, dall’altro sull’ostinato mutismo degli dèi e degli oracoli che venivano supplicati per ottenere soccorso. Nella tragedia della peste, divinità e umanità non hanno più senso di essere distinte, perché entrambe sono accomunate dal senso di impotenza.

A queste due passioni principali, seguivano poi una serie di emozioni derivate. Figlia della paura e del dolore era la stanchezza, che a un certo punto prendeva persino l’anima dei familiari più devoti. Dopo giorni di pianti ininterrotti per un caro in pericolo di vita, poteva capire che la famiglia lo lasciasse in casa perché se ne prendesse cura un altro, vinta dall’inevitabilità del male. Rare anime pie erano inoltre mosse dal sentimento della solidarietà, che tuttavia risultò tanto inutile per gli altri, quanto dannosa per se stessi. Gli altruisti si ammalavano a causa della loro generosità, confermando così l’impotenza della medicina e l’estraneità degli dèi verso i virtuosi disinteressati.

Fin qui Tucidide e Lucrezio descrivono lo stesso scenario, l’uno nel lucido linguaggio del testimone oculare, l’altro con la voce suadente della poesia. Troviamo tuttavia molti dettagli aggiuntivi sulla reazione emotiva alla peste nel resoconto tucidideo.

Tucidide osserva che dalla peste potevano anche derivare emozioni positive. Chi guariva provava insieme un senso di tranquillità per se stesso e compassione verso chi ancora era malato, che forse spingeva a soccorrerlo stavolta senza rischi, o almeno ad accompagnarlo nel trapasso. Persino la gioia era un sentimento che si affacciava negli animi dei sopravvissuti, seppure era molto ambigua. Accanto all’allegria che derivava dai complimenti ricevuti per aver lottato e vinto contro il morbo, si affacciava anche la vana speranza che da lì in poi non sarebbe stati più colpiti da altre malattie e che la peste avesse dotato questi fortunati di un’immunità universale.

Nello stesso tempo, Tucidide non si fa illusioni. Esisteva una massa di persone che – complice il mutismo dei medici e degli dèi – si lasciava guidare solo dal principio di piacere abbandonando qualunque restrizione morale, dal rispetto per i morti all’onore e all’utilità, dalle leggi umane alla vendetta divina. Ciò li conduceva ad atti vergognosi, come il liberarsi del cadavere di un familiare sulla prima pira o sul primo carretto a portata di mano e l’uso dissoluto della ricchezza, magari di colpo ereditata dal padre defunto. Poiché erano consapevoli che la morte le avrebbe uccise prima che pagassero per le loro male azioni e che non potevano contare su beni a lungo termine, queste persone vivevano alla giornata e coglievano l’attimo in un senso molto perverso.

Nulla di tutto questo si ritrova – come si diceva – in Lucrezio. I suoi versi accentuano semmai la dimensione macabra delle strade colme di morti e moribondi di Atene, a volte distorcendo l’originale tucidideo, altre volte operando delle personali licenze poetiche. Per esempio, se Tucidide sostiene genericamente che occhi, dita e genitali erano distrutti dalla malattia, Lucrezio restituisce invece l’immagine di uomini e donne che si auto-mutilano di queste parti, pur di attenuare il dolore o cercare di sopravvivere. O ancora, i versi lucreziani insistono sulla promiscuità angosciante dei cadaveri e sull’ubiquità della morte. Ecco che Lucrezio parla dei bambini schiacciati dal corpo inanimato delle madri, di figli che tirano l’ultimo respiro sui genitori, di templi e fattorie colmi di morti, di arti mozzati che si incrociano camminando, di moribondi che soffocano per l’acqua bevuta istericamente dalle fontane, di luridi individui che lasciano la vita sotto una coltre di stracci. Sono certo pezzi di “colore”, che tuttavia danno un’idea precisa di quale poteva essere la quotidianità di un’Atene funestata dalla peste.

Il rapido confronto con Tucidide e Lucrezio ci può essere di supporto sul piano metodologico. Quando si parla delle passioni che subentrano con le epidemie, occorre cercare di allargare il nostro sguardo, senza fermarsi alle forme più appariscenti della sofferenza e della paura. Dietro il volto uniforme di queste due emozioni, si può nascondere un brulicare di altri sentimenti anche opposti e in conflitto che il ricercatore deve registrare, collegare, capire.


[L'immagine rappresentata è il quadro Peste a Roma di Jules Elie Delaunay (1869)]