Aspettando il tempo

C’è un'esperienza emotiva e cognitiva che caratterizza la clausura forzata nei giorni di difesa dal contagio da Coronavirus. Si tratta della dimensione dell’attesa. Questo modo di attraversare il tempo non si affaccia in realtà nelle nostre vite con particolare prepotenza, perché era già diffuso in molte nostre attività precedenti alla crisi pandemica. La madre che aspetta la nascita del bambino che ha in grembo, il disoccupato che attende l’esito del concorso di lavoro, il malato che trepida per il giorno in cui guarirà, sono solo alcuni semplici esempi che indicano come l’attesa sia diffusa nell’intimità, nella società e persino nel corpo.

Si può d’altro canto interpretare questa nozione in almeno due modi, da cui derivano anche due tipi di percezione del tempo e di canalizzazione delle proprie energie. L’attesa può essere “definita”, se si ha chiara coscienza di quando l’evento che si attende farà più o meno la sua apparizione. I tre casi menzionati sopra rientrano di norma in questa specie. Si sa più o meno sempre in quale mese nascerà il bambino, in quale giorno uscirà la graduatoria di un concorso, quando il malato guarirà. Tale certezza consente all’individuo di assumere in relazione al tempo una direzione teleologica, in altri termini di intendere l’attività dell’attesa come un mezzo o uno stimolo per prepararsi a uno scopo. La madre si prepara alla maternità e allestisce la casa per il nuovo venuto, il disoccupato orienta le sue azioni future prendendo in adeguata considerazione sia il successo che il fallimento della sua candidatura, il malato programma quello che farà non appena sarà tornato tra i sani.

Dall’altro lato, l’attesa può essere anche “indefinita”. Essa non ha un termine, o – se ne ha uno – è solo ipotetico e fragile. Tra i tre casi citati, forse è proprio quello del malato che caratterizza meglio un’attesa di questa specie. Questi aspetta la guarigione, ma non riesce a prevedere con sicurezza il momento in cui la sua lotta con la malattia avrà la meglio. Durante un’attesa indefinita, la reazione tipica della modalità definita può certo verificarsi. Il malato può sempre programmare ciò che farà non appena sarà tornato nella società dei sani. Nei casi più gravi, tuttavia, ossia quando il termine sembra davvero lontano o persino impossibile, l’attività dell’attesa si trasforma da mezzo per un fine a fine in sé. Tutte le energie sono concentrate nell’atto di aspettare, non avendo modo di trovare sbocco all’esterno, quindi porta a compiere un’attività esclusivamente interiore.

Con tutta la dovuta cautela, si può presumere che l’attesa dell’uscita dal caos del Coronavirus rientri nell’attesa di carattere indefinito. Anche se i governi o i virologi ipotizzano un termine della clausura forzata, la percezione comune è che si tratta di una data simbolica, che potrebbe essere posticipata in qualsiasi momento.

Questa distinzione tuttavia non basta a chiarire totalmente i termini della questione. Resta infatti oscuro che cosa sia il “tempo” che pure si intuisce essere centrale nelle due esperienze dell’attesa. La concezione classica della temporalità – che trova la sua formulazione più sistematica nel libro III della Fisica di Aristotele – si adegua bene a spiegare l’attendere “definito”. Secondo il filosofo, il tempo è il numero o la misura del movimento, che procede secondo il “prima” e il “poi”. Un istante si sussegue a un altro nello svolgersi dal passato al presente e da questi al futuro. Si costruisce così un ritmo, in cui l’attesa trova ordine e compimento. La nascita del figlio è ad esempio il “poi” verso cui la madre si orienta. Il suo presente le consente di misurare quanto tempo la separa da questo futuro e da quanto tempo si è allontanata dal “prima” o passato in cui è rimasta incinta.

Più oscura è invece la natura del tempo nell’attesa di carattere indefinito. La concezione classica o aristotelica si mostra qui solo in parte capace di spiegarne la dinamica. Un argomento semplice ma efficace è che il movimento che passa dal “prima” al “poi” continua certo a procedere, ma non trova più nel tempo una misura adeguata. Le ore, i giorni, le settimane e – se perdurerà a lungo – persino i mesi o gli anni sembrano non differire tra di loro. La loro misura è dunque vuota. Passato, presente e futuro diventano nomi convenzionali che non registrano più l’andamento dei movimenti.

Per affrontare il problema, potrebbe allora giovare un cambio di paradigma e uscire dall’idea classica/intuitiva che Aristotele ha descritto tanto bene. Un aiuto concreto potrebbe venire in tal senso dall’opera Waiting for Godot di Beckett. È qui, infatti, che l’attesa indefinita trova forse la sua rappresentazione perfetta.

Beckett non riflette mai in questo testo o in altre sue opere sulla reazione a un pericolo epidemico – per quanto il suo Endgame potrebbe benissimo avere come avvenimento di partenza proprio la fine di una pandemia, che ha spazzato via il genere umano. Il Godot di Waiting for Godot che gli straccioni Vladimiro ed Estragone attendono invano, vedendo sempre posticipato il suo arrivo, ha però una carica simbolica talmente potente da adeguarsi a ogni oggetto. Benché l’avvenimento principale della comparsa di Godot sia lasciato nel limbo dell’attesa indefinita, il testo di Beckett risulta per il resto ricco di azione e movimento. Vladimiro ed Estragone compiono di continuo attività molto complesse e diversificate: ad esempio, sognano di impiccarsi all’albero scheletrico posto sullo sfondo, rovistano nelle tasche dei loro stracci, riflettono su dio e su estratti biblici, si lasciano inondare dalla luce soffusa della luna, dialogano con il personaggio di Pozzo e col suo servo Lucky tenuto a guinzaglio, riflettono su che cosa li convinca a non separarsi mai. In un testo apparentemente privo di azione, Waiting for Godot risulta essere dominato da azioni vitali. Eppure, nei gesti che si ripetono identici tra il primo e il secondo atto, a volte anche con alcune variazioni considerevoli (Pozzo diventa cieco, l’albero scheletrico diventa pieno di foglie), il tempo che misura il movimento sembra essersi fermato e aver perso il suo ritmo. Vladimiro ed Estragone non sanno se il ragazzo che viene “oggi” a comunicare che Godot non può riceverli e li invita ad aspettarlo nello stesso posto “domani” è identico al ragazzo di “ieri”, o ignorano quando di preciso hanno compiuto una data azione. È dunque questo il lato inquietante che l’attesa indefinita manifesta al lettore o allo spettatore di Waiting for Godot. Il movimento continua e, tuttavia, sembra avvolgersi come un serpente attorno alle spire di un presente eterno e quasi identico.

Beckett apre così un paradosso. I nostri movimenti persino molto vivi sembrano essere sospesi, a causa dell’attesa indefinita, in una realtà statica, dove si fa fatica a contare/riconoscere la loro successione e direzione. Il paradosso esiste però solo perché si continua a mantenere la concezione classica/aristotelica del tempo, che insiste a cercare un “prima” e un “poi”. Forse allora la soluzione al mistero dell’attesa indefinita consiste proprio nella frantumazione di questo paradigma. Se nella visione classica c’è un movimento nel tempo, nella modalità indefinita si ha piuttosto un movimento senza tempo. L’impressione della staticità dipenderebbe insomma dal fatto che il tempo è andato perduto. E ciò che i personaggi attenderebbero sarebbe così proprio il ritorno del tempo perduto. Se infatti è l’attesa di Godot che fa sì che il presente sia statico, allora il suo arrivo sarà ciò che permetterà al movimento di tornare a procedere con ordine e ritmo.

Waiting for Godot poteva insomma anche intitolarsi Waiting for the Time. Aspettare il tempo è ciò che accomuna Vladimiro ed Estragone con la nostra tragedia attuale dell’uscita dal Coronavirus. A sintetizzare i nostri movimenti tragici, potrebbe allora aiutare la riscrittura di questo memorabile scambio tra i due straccioni in continua e movimentata agonia:


Estragon: Let’s go.
Vladimir: We can’t.
Estragon: Why not?
Vladimir: We are waiting for the time.
Estragon: Ah! [Pause] You’re sure it was here?
Vladimir: What?
Estragon: That we were to wait.


[La foto è gentilmente concessa da Davide Gualtieri. Qui il suo portfolio di lavori: https://fermareiltempo.wixsite.com/fotografie?fbclid=IwAR3PFCvcLMIgbG84sGGA4WYoFoFbIUQqzDjvHGCcG5_xvWXcl36MtKWx38w ]