La depressione di Stagirio, o sul consolarsi con la peste
La pratica di curare il malessere interiore contemplando i mali degli altri è un consiglio tipico della letteratura consolatoria antica. La sua prima attestazione risale a Democrito, che in un frammento di riflessione etica – forse un estratto della sua opera perduta Sulla tranquillità d’animo – invita a guardare la vita «che conducono quelli che son carichi di guai, riflettendo seriamente a quel che essi sopportano, e allora quel tanto che possediamo presentemente ci apparirà grande ed invidiabile». Il consiglio sarà recuperato da molti pensatori morali successivi, come Lucrezio o Seneca, ma sopravvive anche nella mentalità popolare contemporanea, stando almeno al proverbio sardo Sos males anzenos sunt leziones pro nois (“I mali altrui sono di lezione per noi”).
Una variante di questo topos consolatorio che è interessante analizzare si trova nel terzo libro della lettera aperta A Stagirio tormentato da un demone di Giovanni Crisostomo. Scritta dal teologo nel 381 d.C., essa costituisce uno scritto d’occasione. Un “demone” perseguita Stagirio, monaco che si è ritirato dal mondo per seguire Cristo e ha abbandonato ogni allettamento terreno, causandogli una grave depressione che gli impedisce di osservare serenamente la sua fede. Con i tre libri della lettera aperta, il Crisostomo cerca di guarire l’amico, o di fargli ritrovare la gioia di seguire la sua scelta di vita religiosa.
Le strategie di consolazione comprendono i richiami ai mali degli altri, inclusi quelli degli antichi patriarchi e dei profeti biblici. I capitoli finali del terzo libro si diffondono però su uno strano focus. Crisostomo invita Stagirio a vedere le malattie più gravi e penose che provano i poveri, i marginali, gli sfortunati, le donne rose da cancri incurabili. Soprattutto, egli consiglia di guardare agli appestati tanto del passato, come i 70.000 sudditi del re Davide di Israele, quanto del presente, che sono presi da un male che prima mangia il corpo, poi arriva a divorare nel profondo l’anima. I mali corporali procurano infatti sofferenze di tipo psichico, quindi aggiungono dolore a dolore, facendo l’effetto dell’aceto sparso su una ferita aperta. Stagirio si deve così consolare pensando a quanto è molto più invidiabile la sua condizione. Egli soffre molto nell’anima, tuttavia ha il corpo intatto e non rischia di morire tra le atroci consunzioni della carne. Il suo “demone” è in fin dei conti quasi benevolo, perché gli causa mali minori e gli risparmia quelli maggiori degli appestati.
Il consiglio di Giovanni Crisostomo è a ben vedere un paradosso inquietante. Il suo invito consiste in essenziale nel guarire dalla patologia depressiva osservando un’altra malattia, cura insomma il male col male. Lo scopo è un’autentica rivoluzione cognitiva: se valuterà il suo malessere in modo imparziale, Stagirio dovrà riconoscere di aver attribuito un potere eccessivo al suo “demone” e che è sufficiente la volontà di liberarsene per tornare di colpo sano, gioioso, religioso. Questa fortuna è di contro negata agli appestati, che muoiono di un morbo verso cui persino i santi sono forse del tutto impotenti. La peste è dunque un farmaco per accidente, un “puro neutro”. La stessa malattia che uccise 70.000 Israeliti e continua a mietere vittime è anche una provvidenziale guarigione che Dio ha preparato per il pio Stagirio.
Si può concludere che la peste è considerata una cura per la passione della depressione. Una simile prospettiva apre però forse più problemi che consolazioni efficaci. Infatti, perché Stagirio non può ad esempio provare, con il guardare le brutte sorti degli appestati di ieri, di oggi e di domani, una sofferenza ancora maggiore? La contemplazione del male altrui non aggrava la sofferenza interiore? E perché un dio “buono” dovrebbe uccidere 70.000 innocenti per salvare da un “demone” un suo fedele nemmeno troppo speciale? A conti fatti, l’antica pratica di consolarsi e felicitarsi gettando un cupido sguardo sui mali altrui si rivela sciagurata – una meditazione morale guastata da una segreta forma di immoralità.
[L’immagine di copertina è The Eye of Surrealist Time di Salvador Dalí (1971)]