Il contagio che affabula: Agostino e Artaud di fronte allo specchio

Agostino di Ippona ricorre in più opere all’immagine della peste quale metafora della diffusione dei vizi, dell’empietà, dell’eresia e di ogni altro male morale o spirituale che, a partire dall’errore di uno o pochi individui, infetta l’intera comunità. La formulazione più netta e completa di questa idea si trova però nei primi tre libri de La Città di Dio (413-426 d.C.).
Qui Agostino propone una genealogia dell’origine dei culti pagani di Roma antica, che impediva di accogliere la religione cristiana e dipenderebbe dall’azione malvagia dei dèmoni. Spacciatisi per dèi e approfittando delle pestilenze che colpivano spesso i Romani, essi indussero i sacerdoti a credere che il contagio si sarebbe fermato, se avessero tributato in loro onore riti e sacre rappresentazioni. Così, scrive Agostino, l’«astuzia dei demoni… colse con entusiasmo l’occasione per introdurre un contagio ben più pericoloso, perché non colpisce i corpi ma i costumi». Il contagio dunque non cessò, bensì proseguì sotto nuova forma. Esso assunse l’aspetto della passione, perché tali culti indussero Roma a venerare con paura, gioia e sacrifici violenti delle false divinità. Gli sforzi del pontefice Scipione Nasica – che si oppose all’edificazione di nuovi templi e propose di abbattere quelli già esistenti, dove si tenevano i riti blasfemi – non bastarono ad impedire questa decadenza. L’«astuzia» dei demoni fu più forte di ogni sforzo umano, che ricorrendo alla forza naturale della pandemia distillò un incantesimo con cui soggiogò le deboli menti dei Romani antichi.
Agostino ci mostra pertanto una sovrapposizione tra una peste fisica e una metafisica. Per guarire dal male fisico, i Romani precipitarono nella malattia più grave dell’amore per la superstizione e per il vizio. Questa peste metafisica ha poi delle gravi ripercussioni politiche. Poiché il culto dei demoni mascherati da veri dèi pervadeva la struttura stessa della società, dunque ne condizionava tanto la vita quotidiana, quanto le più importanti scelte collettive (se andare in guerra, come amministrare la giustizia, ecc.), non furono solo i singoli cittadini a essere corrotti. La città stessa che si credeva sana e in forze fu colpita da un cancro interno, che diffondeva peraltro i suoi miasmi ad altre culture e civiltà, mediante l’occupazione militare. Nel seguito de La Città di Dio, Agostino interviene sulla immensa peste demoniaca e propone di sostituire la comunità dei demoni con quella dei Cristiani fedeli a un’unica, autentica divinità. Dalla città terrestre soffocata dai miasmi fisici e metafisici, si deve passare a una città celeste sorretta dalla potenza redentrice della grazia divina.
Molti secoli dopo, nel 1938, il poeta Antonin Artaud pubblica una raccolta di scritti e manifesti dal titolo Il teatro e il suo doppio. Uno dei testi più importanti si chiama Il teatro e la peste. Dopo aver descritto alcune epidemie passate e i sintomi dell’appestato, con particolare riferimento al delirio che lo spinge a compiere atti illogici o contraddittori (come accade, ad esempio, al vizioso che di colpo diventa puro, o all’eroe che dà fuoco alla città che aveva finora difeso), Artaud si slancia in formulazioni che presentano l’attività teatrale come una pestilenza che apre a una libertà assoluta. La peste fisica è una malattia che accentua la volontà, tanto che esse colpisce gli organi più legati all’attività volontaria: cervello e polmoni. Inoltre, essa induce gli appestati a farsi guidare nelle loro azioni da allucinazioni e passioni della mente, che hanno più evidenza e forza affabulatrice della realtà stessa. Allo stesso modo, il teatro è simile alla peste perché procura un disordine delle facoltà mentali che, paradossalmente, accentua il potere intrinseco della volontà. Poeti e attori creano potenti immagini che rompono la logica e realtà ordinaria, permettendo di andarvi oltre. E come la peste si spande da un singolo appestato all’intera comunità, così il teatro si irradia dal punto della scena in movimento alla società degli individui e provoca un delirio o furore collettivo.
La sola grande differenza è il modo in cui la passione viene scaricata. Nel piano della vita concreta, l’appestato compie il gesto poetico violento a cui lo spinge il delirio. Compie davvero l’adulterio, davvero l’omicidio, davvero il rovesciamento della virtù in vizio. Di contro, entro il perimetro della scena, poeti e artisti si fanno muovere dalla passione violenta, per poi però negarla ed estinguerla. In questa profusione di forze, la volontà diventa persino più forte del volere. L’energia profusa dall’artista per impedire di passare dall’omicidio rappresentato all’omicidio in atto è maggiore di quello della peste. Negando insomma l’azione, accade che la forza non venga dissipata e metta invece in contatto sia gli attori che gli spettatori con le più incredibili possibilità dello spirito.
Si verifica allora un autentico incantesimo, o la magia della poesia. La volontà umana è capace di ogni cosa, persino delle più nere e malvagie, che sono raccontate tradizionalmente dai miti e dagli antichi misteri. Basta che essa ritenga vere le sue allucinazioni e creda che quel che immagina o pensa sia davvero possibile per trasformare la realtà nel suo complesso («Lo spirito crede in ciò che vede e fa ciò che crede: è il segreto dell’incantesimo»). Nello spirito umano, brulica un crogiolo di forze latenti che tentiamo di occultare e che, invece, bisogna portare allo scoperto per cancellarle e vincerle. È del resto quando il male viene portato allo scoperto che noi possiamo contrastarlo con la nostra volontà. Evocarlo per poi negarlo è il modo in cui la scena lo cancella dalle nostre vite.
Ora, nel presentare questa sua visione del teatro, Artaud cita esplicitamente La Città di Dio di Agostino e lo riconosce come un suo predecessore. Ci sono infatti almeno tre punti di continuità tra la riflessione agostiniana e quella artaudiana. Anzitutto, entrambi vedono un nesso tra la peste fisica e la peste metafisica, oltre che il loro potere della seconda di innescare potenti passioni. In secondo luogo, Agostino e Artaud hanno un’estetica di matrice politica: riconoscono come la passionalità, dovuta per Agostino al culto dei demoni, per Artaud all’azione disordinata dello spirito, pervada ogni fibra della società. Entrambi riconoscono allora per logica che un intervento sulla passione implica anche una modifica sulla struttura sociale. In terzo luogo, Agostino e Artaud convengono nella definizione della rappresentazione cultuale o teatrale. Subito dopo aver citato la sua densa formula «lo spirito crede in ciò che vede e fa ciò che crede», Artaud precisa che «nel suo scritto [La Città di Dio] sant’Agostino non ha messo in dubbio neppure per un istante la verità di questo incantesimo». I Romani ritennero che il culto può davvero cancellare la peste e presero per veri gli dèi che veneravano. Sulla scia di questo delirio superstizioso, essi trovarono la cura della malattia ed edificarono un impero che cambiò il mondo intero.
C’è però un punto che pone Agostino e Artaud a distanza abissale – e riguarda la specifica teoria della cura. Il primo vede nella peste solo l’origine del male. Essa va cancellata e non assecondata, perché procura fatalmente l’azione del vizio e della dannazione. In questa senso, Cristo è il rimedio contro un fato da cui gli esseri umani non si possono emancipare con le proprie forze. Di contro, Artaud vede la peste anche come una medicina di tipo omeopatico, che cura il male mediante il male. I demoni del teatro vanno assecondati e insieme negati, per accedere alla “città celeste” di una comunità umana che si è scaricata dalle sue pulsioni più nere, dopo averle attraversate. Per Artaud non esiste dunque fato, o meglio esiste una fatalità che soccombe alla libertà a cui aprono il teatro e la poesia. Lasciarsi contagiare significa quindi porsi nella sottile lineetta che separa la dannazione dalla salvezza. Solo Dio (nella riflessione agostiniana) o la volontà umana (nella poetica artaudiana) consentono di superare questo confine in direzione della seconda via, al cui termine sta la salute suprema, che nessuna torbida passione potrà più guastare.
Potremmo pertanto concludere che Agostino è un “Artaud bianco” che non ha voluto portare fino in fondo la sua visione estetica, volendo rimanere fedele all’ideologia del Cristianesimo, e che Artaud è un “Agostino nero” che riconobbe il vero dio nei demoni della volontà umana. Il santo e il poeta si specchiano l’uno nell’altro, tanto che si potrebbero tramutare perfettamente nel loro contrario, se facessero un passo indietro rispetto ai loro convincimenti. Ciò che resta fermo nelle loro visioni è che è in un confronto critico con il delirio e con la passione della peste che lo spirito riscopre la sua vera natura, direzione, origine. Di fronte alle tentazioni del male e agli incatenamenti del fato, la volontà trova o un Dio che lo grazia, o una libertà che crede alla verità dei suoi incantesimi.

[L'immagine di copertina è un particolare delle Tentazioni di sant'Antonio, attribuito a Hieronymus Bosch]