Combattente d'amore
[Pubblichiamo volentieri un altro contributo esterno: un racconto dello scrittore e musicista Cristiano Sormani Valli. Si può essere ispirati alla medicina attraverso la poesia? Si può ricostruire la speranza nel caos del Coronavirus?]
A Paola e a chi come lei combatte battaglie d'amore.
Non sono diventata medico per mio padre: neurochirurgo che ogni giorno mi faceva giocare e raccontava storie. Un re che preparava per me un regno di cui io ero la principessa. Non per lui e il suo odore di disinfettante che non spariva mai. Non per tutte le volte che l'ho sentito raccontare a mia madre, sul bordo della cucina, quello che era successo in ospedale. Tutto il bene e tutto il male di portarsi addosso la sofferenza. La sensazione di onnipotenza e di completa mancanza che ora provo anch'io e che mi ricorda sempre il suo sguardo. Mio padre con quel suo volto impassibile ma col cuore sparso sul pavimento. Mio padre sincero fino alla nausea. Mio padre che mi ha insegnato come mettere una distanza, un vetro, fra te e quello che accade.
Fra te e la malattia. Antidoto alla depressione, alla follia.
Non sono diventata medico per mio nonno: dottore di un paesino sul lago. Deportato a Mathausen, tornato con gli occhi pieni di silenzio ma le mani ancora più veloci. Il nonno che mi spiegava quanto si possa combattere per il mondo, anche se pensi di non farcela, semplicemente camminando un passo dopo l'altro. Preoccupandosi solo di dove stai appoggiando i piedi. Andare avanti come lui aveva fatto mentre ogni cosa diventava polvere e non restava nient'altro che il cielo da chiamare, mentre il fumo saliva insieme alla sua voce.
Il mondo è un imprevisto, mi diceva, accarezzandomi le mani con gli occhi che straripavano di lacrime. Però, quello che fa la differenza, continuava, è chi diventiamo nell'affrontarlo.
Non sono diventata medico per loro due.
Sono diventata medico per una frase di Pablo Neruda che mi è venuta a cercare mentre ero nascosta nel dubbio della vita.
Avevo 21 anni. Ero con amici sulla terrazza dell'appartamento di Giulio, il mio fidanzato di allora. Una ragazza che non conoscevo stava leggendo un libro. Io ero ubriaca fradicia, triste come un'adolescente. Erano giorni di fuoco e fiamme fra me e quel ragazzo che giocava a basket e che amava tanto Van Gogh, fra me e quegli occhi azzurri con cui stavo da 8 mesi. Così ho chiesto il libro con una gentilezza nello sguardo e nelle parole che non ho più sperimentato. Nonostante mio padre, non sono mai diventata una vera principessa.
La ragazza, neutra come una pietra, me l'ha fatto scivolare sulle cosce. Come ho sempre fatto, ho aperto a caso le pagine ingiallite e ho letto queste parole:
RICOSTRUIRE SENZA SOSTA LA SPERANZA.
Il tempo si è incrinato. Tutto si è fatto più chiaro. Mi è quasi passata la sbornia. Ho restituito il libro, ho preso la borsa, la giacca e senza salutare nessuno ho lasciato l'appartamento e quel ragazzo dagli occhi di cielo. L'anno dopo mi sono iscritta a medicina, senza dirlo a mio padre. Senza dirlo a mio nonno.
RICOSTRUIRE SENZA SOSTA LA SPERANZA.
Questo provo a fare. Ogni giorno. Anche adesso che siamo in guerra, che ci siamo ritrovati in trincea in mezzo ai feriti. Bombe invisibili che infettano. Che ti mettono caschi di vetro, tubi per continuare a lasciarti il respiro. Il respiro che ci rende vivi. Chi l'avrebbe mai detto che sarei dovuta essere qui, anche io, nel mezzo del ciclone COVID-19? Un nome che è mi è sembrato da subito una marca di sigarette. Hai preso le COVID? E invece è un seme che pianta spine nei corpi, una sostanza molle e buia che ammala. Veloce come la disperazione.
Sono troppi. Troppi, questi occhi che spuntano ovunque. La tristezza del non poter correre da tutti si mischia alla rabbia della scelta. Del non poter arrivare alla mano tesa verso di te. Noi, impotenti, pedine impazzite in un gioco di merda. Sono tante le persone che sono qui, che arrivano qui in Pronto Soccorso. Che trovano medici e infermieri bardati contro il virus. Con la paura di ammalarsi a loro volta. Con la paura di non poter tornare qui, in prima linea. Del portare a casa la tragedia. Perché su quel lettino ci potrebbe essere quel re di tuo padre che ormai non ha più la forza di combattere, nei suoi 73 anni. Con il terrore di ammalarti per quei tre figli che ti aspettano a casa. Terrore di infettare un marito che ti compra vino rosso, che ti aspetta alzato fino a che non torni. Che chiede: e oggi?
Mentre tu, oggi, non vuoi raccontare di aver scelto, ancora. Di esserti messa sulle labbra la bocca di Dio, la sua responsabilità. Non gli sai come spiegare l'emergenza, come si sta sotto il fuoco nemico mentre devi capire chi salvare. Chi scegliere. L'anziano o il ragazzo? Il ragazzo o il bambino? Cosa puoi fare? Chi tenere? Chi lasciare? Mentre segui il protocollo e dentro muori un pezzettino per volta.
Dopo ogni decisione un pezzo di te si scioglie nell'acido della scelta. Dopo ogni abbraccio mancato, una fuga verso un equilibrio che non trovi più.
RICOSTRUIRE SENZA SOSTA LA SPERANZA.
Penso mentre il sudore cola sulla schiena per via dell'armatura che mi separa da tutto. È una fatica che mai avrei creduto. Una corsa continua, cercando di rimanere vigili e umani. Le mascherine scarseggiano, non abbiamo più termometri. Si sente il ferro delle catene che ferisce i polsi. Sono continue deposizioni dalla croce. Le persone muoiono sole. Senza aver visto le facce che hanno accompagnato la loro vita. Senza aver parlato per un'ultima volta col nipotino, con il figlio. Senza sapere se torneranno mai a casa. Nei corridoi inondati di dolore e richieste. Le voci dei parenti nei telefoni. Le loro facce lontane, separate da uno schermo.
E poi il silenzio che resta.
Soffocato nell'ultimo sguardo al mondo.
Oggi ho preso fra le mie, le mani di un uomo. Era ebreo. Come mio nonno era stato deportato nei campi di concentramento. Ha detto di conoscerlo. Per un attimo me li sono immaginati, insieme, al tavolo di un bar, a guardarsi nei loro occhi grigi. Gli ho tenuto la mano mentre abbassava le palpebre piano, come a chiudere un sipario alla fine della tragedia. Rughe di 96 anni, righe di dolore, solchi in cui un ultima lacrima scendeva. Io piangevo con lui, senza farmi vedere, nascosta dietro la mascherina, la mia corazza. Sua moglie accanto a noi che respirava appena, poi più niente. I loro toraci che si sono fermati insieme.
Io sono diventata le lacrime del mondo. Una suora ha detto una preghiera per loro, nonostante non fossero cristiani. Anch'io ho sussurrato una preghiera ma non a Dio, agli uomini. Ho detto una preghiera per la loro forza infinita e per l'amore. Per l'amore che vince sempre su tutto. Nonostante.
Ma sono tanti, troppi. A volte non ci ricordiamo nemmeno i nomi. Confondiamo il giorno con la notte. Difficile anche togliersi la tuta per andare in bagno a pisciare. Paura di contagiare tutto e tutti. Abbiamo il telefono sempre acceso perché la chiamata può arrivare da un momento all'altro. Vocazione. Parola usata ed abusata da quel cattolicesimo che mi è sempre stato così distante ma così perfetta per descrivere quello che facciamo. Vocazione. Parola che ha a che fare con una voce. Una voce che chiama, che sa che quello che stai facendo, va fatto. Che sei tu a doverlo fare. Voce che dice che comunque siamo in tanti a farlo, nonostante la paura che scava fosse profonde sotto ai nostri occhi.
RICOSTRUIRE SENZA SOSTA LA SPERANZA.
Per questo siamo qui, in questo marzo 2020.
Per questo cerchiamo di sopravvivere fra le bombe, di rifugiarci in trincea per non mollare la battaglia. Per non lasciare la frase che è diventata destino. Tornando a casa ogni sera con la paura di portare il virus fra le mani di chi ti ama. Varcare la soglia col sorriso, con le viscere annodate e il cuore distrutto. Abbracciare a distanza. Lavarsi di dosso la paura, mettere un punto fra là e qua. Strofinarsi via il buio. E poi tornare nel loro profumo. Senza poter sparire nei baci dei tuoi tre bambini, di tuo marito. Di quel calore che ti prepara un nido in cui riposare, in cui sentirti, anche se per poche ore, normale. Ora che sei tu la regina che prepara il regno. Ora che sei tu la deportata, ridi insieme a loro come se non fosse successo mai niente.
Provando a dimenticare le milioni di lacrime che ti porti addosso e le bombe che fuori, imperterrite, continuano a cadere.
Mentre continui a pensare, nonostante tutto, che non c'è altra cosa che avresti potuto fare.
Se non essere chi sei. Se non essere qui.
Se non avere scelto quella frase.
[L'immagine di copertina è di Mariachiara Tirinzoni]