Lasciar morire la passione

[Il presente intervento è una breve postilla a Un campionario di passioni. La peste in Tucidide e Lucrezio, ma è stato ispirato anche da un commento privato di Simona Frigerio: giornalista, critica teatrale e curatrice di un interessante spazio di riflessione sulla pandemia dal titolo The Black Coffee. Si ringrazia l’amica e collega per la sollecitazione]


Tucidide e Lucrezio raccontano dello sciame di emozioni che scoppia con virulenza non minore di quella della peste: sofferenza, paura, angoscia, indifferenza, disprezzo, gioia, piacere, speranza, compassione. Si può tuttavia aggiungere adesso che, pur non affermandolo in modo esplicito, i due autori condividono anche l’identificazione della comune matrice psicologica di tutte queste così diverse passioni. Si tratta della percezione della morte – il grande ospite invisibile e inquietante che la peste di Atene fa apparire allo sguardo dei malati.

Assodato questo, però, non si è fatto un grande passo in avanti. Resta infatti da capire la valutazione che Tucidide e Lucrezio danno della morte, o meglio che cosa le nostre passioni ci dicono intorno al mai tramontato problema del morire. Inoltre, occorre anche comprendere che cosa potremmo fare noi oggi di questi illustri precedenti classici.

Tucidide affronta il tema senza cedere a qualunque lettura ideologica. Per lo storico, la morte è semplicemente una realtà, un fenomeno tra i tanti che è tuttavia illuminante per capire chi siamo e perché reagiamo in modi così diversi o persino contraddittori alla situazione estrema dell’epidemia. Il caos epidemico mette in luce che ci possono essere tanti modi di morire, quanti sono le nostre passioni. Il lussurioso che vive alla giornata non è nella sostanza diverso dal sopravvissuto altruista che, scampato al massacro, cerca con le sue forze di sostenere la vita degli altri. I due si distinguono solo per il loro modo di interpretare il trapasso: per l’uno è un evento inevitabile e che giustifica ogni nefandezza, per l’altro una soglia che occorre cercare di varcare il più tardi possibile. Da questa visione neutra della morte, Tucidide ricava una visione altrettanto neutrale di ciò che il lettore deve apprendere dalla peste di Atene. Il suo compito è stare in allerta, anticipare lo scoppio di un nuovo focolaio a partire dall’osservazione di sintomi fisici e psichici simili nei malati di altri luoghi e tempi, per evitare che la morte torni di nuovo a dominare tra le strade.

Ideologizzata ma anche grandiosa è invece l’interpretazione di Lucrezio. Anzitutto, il poeta colloca l’episodio della peste di Atene alla fine del libro VI del poema Sulla natura delle cose per dare un orizzonte naturale all’evento. La peste è una delle molte epidemie che gli atomi di una natura priva di razionale controllo divino fanno esplodere periodicamente nella storia. In questo senso, Lucrezio concorda in parte con l’individuo che vive alla giornata, senza tenere conto delle minacce di una punizione o di un interessamento degli dèi che se ne stanno beatamente distanti dal nostro mondo. Parallelamente, però, il poeta inserisce la peste di Atene in un più ampio discorso morale, che gli è stato aperto dal suo maestro Epicuro. La morte che fa tanto paura, ci fa così soffrire e ci rende proclivi a sentimenti compassionevoli o criminali in realtà non è nulla per noi. Che cosa c’è dopo tutto da temere per quella che è soltanto una cessazione della sensazione? Se tutto passa attraverso i sensi, allora la morte è inesperibile, ossia innocua. La cruda descrizione della peste di Atene serve così a trovare una saggia via di mezzo tra la visione ingenua della natura e la reazione passionale, che consiste nella ricerca con la ragione di un piacere che non può esserci sottratto nemmeno in mezzo all’epidemia. Il caso si applica anche al criminale che vive alla giornata. Se questi si rendesse conto che nessuno dei piaceri dissoluti che insegue contro la legge è durevole e capace di renderlo felice, allora potrà essere invitato a cercare il godimento sottile e gustoso dell’amicizia verso gli altri, o il piacevole e grato ricordo dei beni passati che non ci possono esser sottratti.

In modi diversi, Tucidide e Lucrezio concludono con il monito di «lasciar morire» la passione. Le emozioni che fanno apparizione durante un’epidemia vanno estirpate dall’intimo, per guardare senza ansie e distrazioni la nostra caducità. Il tempo dell’epidemia non è il momento per emozionarsi, ma per ragionare con il rigore della storia e della poesia scientifica.

Forse la fiducia di questi due autori per la loro disciplina è sopravvalutata. La storia decantata da Tucidide vede in modo troppo algido il problema della morte, che in quanto ci riguarda da vicino non può essere studiato con assoluta neutralità. Lucrezio nutre invece una fiducia eccessiva verso le nostre capacità razionali di ricavare un piacere che rende beati ai tempi dell’epidemia. L’invito ad abbandonarsi al ricordo dei beni passati sembra per esempio essere un contentino per sopportare la tragedia: un modo per ridimensionare l’infelicità presente, più che per essere felici. Per estensione, anche il loro monito di «lasciar morire» la passione è forse plausibile solo in parte.

Certamente troppo amore può essere deleterio e offusca il nostro giudizio, che va tenuto allenato sempre e in particolare nell’epicentro di un’epidemia. Ma anche il totale difetto di questa passione può apparire dannoso. Oggi c’è del resto timore che il tentativo di metter tutto in piena sicurezza, tenendo da conto esclusivamente dei fattori economici e igienici, ma quasi per nulla i desideri e il benessere dei cittadini, sia limitante e pericoloso, quanto lo è l'affermare che l’epidemia è un’emergenza irreale, che non va presa seriamente. Se è vero che ognuno uccide la cosa che ama, il mantenerci a ogni costo in vita e in salute può essere il sintomo di un’assenza d’amore da parte dell’altro.

La proposta dialettica è allora quella non di «lasciar morire» tutte le passioni e tutti gli interessi. Occorre uccidere tutto ciò che impedisce una sacra alleanza tra ragione e sentimento, tra lucidità ed empatia. Fin quando si opterà o per la sola razionalità, o per la sola passionalità, il risultato sarà sempre la frammentazione e lo spreco di energie, la supremazia della sicurezza sulla vita.


[L'immagine usata è una foto di Davide Gualtieri]