L'alba di Achille e la notte di Priamo
Il libro I dell’Iliade contiene non solo la prima occorrenza del termine “contagio” (λοιμός) nei poemi omerici e forse la prima descrizione di un’epidemia nella letteratura occidentale. Essa racconta anche la prima reazione scomposta davanti a questo fenomeno, attraverso il conflitto tra i personaggi di Achille e Agamennone.
La vicenda è la seguente. Agamennone è pregato da Crise, sacerdote di Apollo, di restituirgli la figlia Criseide, che era stata fatta prigioniera di guerra e concubina del condottiero. Ricevuta una risposta negativa, il sacerdote invoca in preda all’ira il suo dio e lo implora di portare una pestilenza nel campo acheo. Apollo viene a sua volta accecato dalla rabbia e scaglia le sue frecce avvelenate dapprincipio sui muli / sui cani dell’accampamento, poi sugli Achei stessi. Alcuni studiosi moderni hanno ipotizzato, a tal proposito, che il morbo in questione va forse identificato con la molva, che in effetti si trasmette da quegli animali fino agli uomini.
La pestilenza si diffonde per nove giorni e, all’alba della decima giornata, Achille convoca un’assemblea per chiedere a Calcante sul perché il dio sia tanto adirato e come sia possibile placarlo. Quando l’indovino risponde che il rimedio consiste nel restituire Criseide a suo padre, Agamennone cede furente alla necessità, ma non prima di aver dichiarato che pretenderà un dono sostitutivo. Egli si prende la schiava Briseide di Achille e desta l’ira dell’eroe, che decide di abbandonare il conflitto con i Troiani e implora sua madre Teti di intercedere con Zeus, convincendolo a portare la strage tra gli Achei. La sua preghiera viene esaudita. Zeus innesca una serie di eventi che effettivamente seminano la distruzione nel campo acheo, fino ad arrivare però a spingere Ettore, figlio del re Priamo, ad uccidere Patroclo, amico e amato di Achille. Quest’ultimo riprende allora le ostilità, rivolgendo stavolta la sua ira contro i Troiani. Achille uccide infine Ettore e nega a Priamo la restituzione delle sue spoglie: ultima consolazione di un vecchio che già ha perso numerosi figli.
È evidente che la geniale arte di Omero cerca di mettere in evidenza la passione dominante dell’ira. Essa si trasmette in via progressiva da Crise ad Apollo, da Apollo ad Agamennone e da Agamennone ad Achille, che con la preghiera rivolta a Zeus tramite Teti semina una distruzione non meno rapida e violenta della molva. Potremmo anzi parlare di due contagi che procedono in parallelo. Abbiamo quello “fisico” della molva portata da Apollo e quello “spirituale” dell’ira di Agamennone/Achille. Essi si alimentano poi di forza reciproca. La molva è causata dall’ira divina, ma a sua volta essa accende l’ira umana, che infiamma un focolaio di eventi dalla violenza fuori misura.
Se volessimo “secolarizzare” Omero, potremmo dire che il contagio “fisico” della peste era forse inevitabile. Apollo potrebbe anche essere interpretato come un simbolo dei raggi del sole estivo, che fa emergere dalla terra i microbi che fanno ammalare i muli e i cani, i quali a loro volta trasmettono il contagio agli esseri umani. Questa esegesi risale almeno alle Questioni omeriche dell’allegorista Eraclito, che nel commentare i versi del libro I dell’Iliade sostiene, appunto, che Omero nasconde dentro l’immagine mitica una teoria naturalistica del contagio. Gli Achei erano convinti che fu un dio adirato ad aver portato la molva, quando in realtà la causa vera è la calura estiva che avrebbe comunque portato morte e distruzione, anche se Agamennone avesse restituito Criseide a Crise.
Il contagio “spirituale” era invece senz’altro evitabile. La “peste dell’ira” non si sarebbe mai verificata, se Agamennone non avesse preteso Briseide come dono di compensazione, o se Achille avesse rinunciato al suo proposito di vendetta e chiesto a Teti di arrestare con una nuova preghiera il piano di Zeus. Sul piano morale, dunque, il racconto di Omero contiene un implicito invito a mettere da parte i propri personalismi, ad accettare la fatalità della molva e a reagirvi con spirito di solidarietà. Dall’omissione di questi piccoli ma decisivi gesti di rinuncia, invece, si aggiunge nuova distruzione alla passata distruzione, che peraltro colpisce gli affetti dei due eroi e persino quelli di Zeus. Agammenone vede morire molti suoi guerrieri e amici. Achille uccide Patroclo, la persona che più ama e che verrà anche pianta dai cavalli immortali che aveva avuto il privilegio di guidare: Balios e Xanthos («e dagli occhi cadevano a terra, brucianti, le lacrime; si insozzava la folta criniera che, sfuggendo al collare, ricadeva sul giogo dall'una e dall'altra parte»). Infine, Zeus perde il figlio Sarpendonte, che viene ucciso da Patroclo prima che questi trovi la morte da Ettore. La peste dell’ira è quindi un male ben peggiore della molva inviata da Apollo o dal sole, perché non risparmia né gli animali, né gli esseri umani, né gli dèi.
Solo nel libro XXIV dell’Iliade, che chiude l’intero poema, il ciclo delle distruzioni innescate dal contagio dell’ira ha finalmente il suo termine. Una notte, un Priamo insonne dal giorno della morte di Ettore si introduce di nascosto nella tenda di Achille, anch’egli prostrato da numerose veglie notturne, trascorse nel ricordo di Patroclo. Il vecchio bacia le giovani mani che hanno assassinato suo figlio e chiede al più forte/temibile dei suoi nemici un atto di umanità: la restituzione delle spoglie di Ettore, in cambio di numerosi e preziosi doni. Dopo un ultimo rigurgito dell’ira funesta che aveva fatto il suo esordio nel libro I, Achille cambia atteggiamento, perché avverte un sentimento che non aveva provato con tale intensità prima d’ora. Si tratta della tristezza, che riporta tutto nella sua giusta prospettiva.
Che cos’è ora la vendetta che Achille aveva considerato tanto desiderabile, durante il fuoco divampante dell’ira? Nient’altro che questo: un cumulo di cenere che aveva preso forma in un vecchio re caduto in ginocchio e in lacrime, per chiedergli indietro soltanto un cadavere.
Achille fa un passo indietro, quello che non aveva saputo fare quando subì torto da Agamennone, e consente la restituzione di Ettore. Il re può tornare nella sua reggia. Il morbo si spegne. Infine uomini e dèi si abbandonano, dopo tanto tribolare, al ristoro e al silenzio del sonno, che appare tanto più desiderabile dopo tanto caos e il rumore della mischia.
Dall’alba bruciante in cui Achille interroga Calcante alla notte di Priamo, la rabbia che divide gli uomini si dissolve gradualmente, per riaggregarsi nella solidarietà della tristezza. Questa consapevolezza che già un mito antico racconta che ci sarà sempre una via d’uscita sia dalla pestilenza, sia dalla violenza delle passioni fuori controllo, rappresenta forse oggi anche un buon auspicio per ciascuno di noi.
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