Passione, silenzio e resurrezione

[Si pubblica qui volentieri un intervento di Damiano Grasselli, direttore artistico del Teatro Caverna di Bergamo, che riflette sull'epidemia che colpisce la sua città e sul come reagirvi, quasi cercando una resurrezione, attraverso l'aprirsi al silenzio (N.d.C.)]


debbo molte delle parole che seguono a Diego,
un amico caro e silente,
eccezionale esperto di canto e di molte altre cose


Si avvicina la settimana pasquale. Come nell’orto del Getsemani, gli ulivi fioriscono in questa loro stagione di festa. Una settimana prima della Pasqua, il ramoscello d’ulivo porta la pace per le strade di Gerusalemme, e del mondo cristiano-occidentale. Dopo pochi giorni il cielo si oscurerà improvvisamente.

Don Sandro era un prete di un piccolo villaggio dimenticato, morto una domenica pomeriggio dopo una vita passata da parroco ad incontrare uomini e donne, che cercava di convertire. La domenica pomeriggio in questione è una delle tante di questo periodo, passate in attesa, come nel Getsmani, della disfatta del giorno dopo, dell’intercalare ormai quotidiano che ci elenca il triste bollettino di chi è caduto e di chi resta, caduco.

Tra gli esperimenti di conversione che don Sandro poteva annoverare, al primo posto tra i suoi fallimenti, avrebbe sicuramente elencato me, anche se ci siamo continuamente presi e lasciati come due innamorati litigiosi. Tra i suoi innumerevoli tentativi, uno, da ragazzo, mi colpì come un’ascia fa con l’albero: lo ammetto don Sandro, se lei avesse assestato un altro colpo così fendente, nella mia gioventù, forse sarei passato su un fronte diverso. Ma non è stato.

Il colpo, quasi letale, era proprio quel ”Giardino del Getsemani” che allestiva nella notte tra il giovedì ed il venerdì, prima della Pasqua. Don Sandro smobilitava la chiesa, spostava i banchi in un ordine tutto suo, in un angolo riservato, e lasciava l’edificio aperto tutta la notte, per la preghiera e la meditazione. Ed è allora che, avrò avuto 12 anni, ho cominciato a sentire il respiro profondo della notte.

John Cage scriveva che quando gli fecero provare una camera anecoica fu impressionato dal fatto che iniziò a sentire i rumori del suo corpo: il respiro, il battito cardiaco, lo scorrere del sangue. Arrivò così ad un’affermazione straordinaria per la storia del Novecento: il silenzio non esiste. Noi dividiamo i suoni in rumore, ciò che ci infastidisce, e suono, ciò che ci allieta.

Chissà se Cage sapeva che già nel 1919 il polacco Erwin Schulhoff aveva anticipato, nella terza parte della composizione Pittoresken, la sua 4’33’’. E chissà se Schulhoff aveva letto che millecinquecento anni prima, Sant’Agostino aveva scritto che “chi giubila non profferisce parole, poiché questo è un suono di letizia senza parole: è infatti voce della letizia dell’animo di chi esprime un’emozione, e non di chi ha in mente un significato particolare.”

E poi ancora, chissà se Sant’Agostino, allorché nel De Magistro scrive che quando si interroga lo si fa per insegnare, chissà se lui avesse letto Edipo Re. In tutta la tragedia, il sovrano, per scoprire cosa abbia ridotto la città di Tebe in una condizione di tale abiezione, continuamente interroga: Giocasta, il servo, Tiresia, Creonte, il pastore...

E poi più indietro ancora, fino ad arrivare a sentire il primo canto di un uccello su un albero, il primo gocciolio dell’acqua dalle foglie, il primo rotolare di un masso nel fiume. Chissà chi abbia potuto ascoltare, e quale stupore, quale incanto, quale incredibile bagliore in assenza di silenzio, quel suono-rumore.

Don Sandro lasciava la chiesa aperta tutta la notte: pochi affrontavano il loro Getsemani silenzioso, in attesa della passione, morte e resurrezione. Il venerdì, si diceva a quei tempi, “si legavano le campane”, si interrompeva cioè ogni attività delle corde campanarie. Anche i rintocchi delle ore erano sospesi. Il piccolo mondo antico in cui io e quel prete tutto nero eravamo rinchiusi, si sospendeva per due giorni interi: il tempo non era più segnato da una convenzione ma dallo scorrere del silenzio.

Un paio di settimane fa sono stato svegliato dagli uccelli. Ho un sonno inquieto e leggerissimo, ma non mi era mai capitato, in una stanza che più sigillata di quella di questi giorni non si può, d’essere svegliato da un cinguettio. La cosa si è ripetuta con una certa frequenza in queste settimane.

Ogni mattina mi è parso di udire un verso d’uccello nuovo. Che in due sole settimane il mondo si sia ripopolato di specie estinte? Improbabile. Poi anche la notte ho cominciato a sentire suoni di uccelli imprevisti: piccioni, tortore, passeri, le prime rondini, merli, stornelli, civette, fringuelli... Non sono un ornitologo. Abito in un paese alle porte della città, non proprio in mezzo alla campagna. Ma i miei vicini hanno un grande giardino con degli ulivi proprio dietro la mia stanza da letto: il loro Getsemani, nella mia notte.

Questi uccelli cantano solo oggi? mi sono chiesto ad un certo punto. Forse solo oggi li sento. Ho pensato. Solo oggi li ascolto. Solo questo silenzio, di questi giorni di passione più che prossima, mi ha permesso di sentire il canto degli uccelli.

Credo, ritornando a Cage, che il rumore abbia densamente spopolato il mondo acustico e preso il sopravvento. E che questo “silenzio” di questi giorni sia davvero suono, profondamente suono. Le campane sono legate.

Agostino, sempre nel De Magistro, ci spiega che il suono che noi ascoltiamo è più importante del suo significato, il suono viene prima del segno che noi abbiamo scelto per quel suono. Lo ha riassunto benissimo David Rothenberg, quando scrive che “il suono venne prima del senso, prima della storia, indietro fino al canto degli uccelli. E’ il linguaggio ad essere nato dal rituale, non il contrario”.

La sola strada percorribile oggi, per la nostra passione, morte e resurrezione mi pare il ritorno a questa incontenibile quantità di suono, che scaturisce dal silenzio (dalla quasi totale riduzione, forzata, del rumore di questi giorni). Senza tornare all’ascolto di questo suono non abbiamo possibilità di vita.

E’ la possibilità di ascolto che rende vivibile la vita. In quanto nell’ascolto scopriamo l’esistenza di altro (dell’altro, inteso non - solo - come altra persona).

Nel Getsmani Cristo chiede a Dio di allontanare il calice. E’ buio, completamente buio. Il Getsemani è fuori dalla città, non illuminato nella notte. Le cicale hanno smesso di frinire. E, nella sua personalissima camera anecoica, Cristo sente le pulsazioni del sangue. Sente la paura della sofferenza, il dolore che si avvicina.

Poi verranno i centurioni, Giuda, le spine, Pilato, la croce. Ma tutto inizia nel Getsemani. E’ il silenzio che permette alla tragedia di accadere.

Il ridicolo minuto di silenzio, inframezzato da applausi e inni, davanti al caduto di turno, ci allontana sempre più dalle domande. Sono le questioni che Edipo ci pone, che lui stesso domanda per provare ad imparare, la storia di questa tragedia. Tebe è infestata dalla peste, Edipo chiede per sapere, di sé, l’indicibile. Non è nel surrogato del (minuto di) silenzio che troverà la risposta.

La risposta è nella sua millenaria storia: la piaga è sempre alle porte della città, l’invasione ci abita già da tempo e il declino è all’inizio di ogni salita. Edipo sa da sé che ciò che sta accadendo è già accaduto: ha già la risposta alla sua domanda.

Tutta la fatica di Edipo sta nell’ascolto. Le lamentazioni del popolo, i presagi di Tiresia, le liti con Creonte, la famigliare confidenza... Tutto pur di non dare spazio al ridondare di quelle domande. Tutto il rumore possibile.

Pasolini chiude il suo Edipo facendo fare, al re esiliato e cieco, una lunga passeggiata per i sobborghi della città contemporanea, laddove si prepara il fragoroso avvento del rumore di massa. Edipo le ha provate tutte per sfuggire a quell’ascolto di sé: ha creato un brulicare disturbato di rumori, in cui sarà difficile far penetrare un suono.

Sullo sfondo però il canto degli uccelli, all’alba di ogni giorno, torna ad interrogare. A questo punto Edipo ascolta e scopre l’abisso che è dentro di sé, come diceva Büchner. Ed in quell’abisso è costretto a precipitare. Gli occhi sono lo specchio dell’anima, dice il vecchio adagio, e pur di non ascoltare attraverso quegli occhi, Edipo preferisce privarsene per sempre, vagando tra il rumore molesto delle metropoli e delle metropolitane che arrivano, oggi, anche alla periferia dell’impero.

Edipo è un uomo in fuga. Chiuso nel suo rumore, finito.

La tragedia si è chiusa.

Stamattina, all’alba, sempre più vicine la passione e la morte ma lontanissima la resurrezione, gli uccelli cantavano ancora, con una forza primitiva e gioiosa. La vita era dentro il movimento sincronizzato delle loro ali: la vita non è chiusa.

A mezza mattinata i miei vicini sono arrivati in massa, senza osservare alcuna distanza tra loro e le cose, ma con grande, presunta, sicurezza. Un disarticolato schiamazzare di voci ha annunciato il loro intento: non ascoltare.

Il rumore assordante di lame metalliche ha sfinito i rami del Getsemani, lasciando per terra foglie morte e tronchi spezzati. Qualcosa forse ricrescerà, o forse non più. Bisogna aspettare primavera.

La lotta è stata ancora una volta tra suono e rumore, nell’assenza di silenzio. Ma per quanto la motosega abbia roboato la sua divinità, domattina torneranno gli uccelli. Col loro canto, anche senza di noi. Mi pare l’unica certezza possibile.

[L'immagine usata è: Jean Miró, Canto dell'usignolo a mezzanotte e pioggia del mattino (1940)]