Nel contagio di Paolo Giordano

Il decreto dell’8 marzo 2020 definì “zone arancioni” le regioni di Lombardia e Veneto. Il 26 marzo, è pubblicato da Einaudi il libretto Nel contagio dello scrittore e fisico Paolo Giordano. Il testo esce, dunque, diciotto giorni dopo l’inizio ufficiale dell’emergenza pandemica. Giordano è consapevole che molte idee pubblicate così presto nel libretto potrebbero non risultare più valide nei mesi successivi. Nello stesso tempo, però, egli sostiene che ciò non impedisce la necessità di scrivere. Giordano non vuole perdere «ciò che l'epidemia ci sta svelando di noi stessi» e afferma che «certe riflessioni che il contagio suscita adesso saranno ancora valide».

Lo svelamento compiuto dal libretto Nel contagio investe anche il tema delle passioni. Giordano riflette, infatti, su alcune reazioni emotive che dicono qualcosa su noi stessi e sulla struttura della nostra società attuale.

La passione principale che è indagata dal fisico/scrittore è la paura. Essa è una passione che nasce perlopiù da un difetto di conoscenza. Si ha paura perché si ignorano le cause della diffusione del virus, il modo per fronteggiare il contagio, o che cosa sono le nuove sensazioni e abitudini che assumiamo nell’attraversare l’emergenza. L’argomento di Giordano si basa su un’opposizione tra la reazione degli scienziati e quella dei non-scienziati. Se i primi non hanno paura perché sanno prevedere l’andamento del contagio, i secondi ne sono invece atterriti perché lo ignorano e sovra-interpretano l’epidemia – complici i giornali che presentano un normale e prevedibile aumento dei contagiati come una «drammatica» o «preoccupante esplosione» del morbo. Ne segue che Giordano rintracci la causa della paura nella “distorsione della normalità”. Una realtà che per il sapiente non risulta preoccupante in sé lo diviene in virtù di un’ignorante demistificazione.

Esiste però anche una paura che prende Giordano quando riflette sul futuro e che di contro nasce da un’anticipazione di sapere. Egli dice che non temere la malattia, bensì qualcosa di più astratto: «[Ho paura] di tutto quello che il contagio può cambiare. Di scoprire che l’impalcatura della civiltà che conosco è un castello di carte. Ho paura dell’azzeramento, ma anche del suo contrario: che la paura passi senza lasciarsi dietro un cambiamento». Scoprire che si tornerà alla normalità, quando la “normalità” stessa era il problema (cfr. qui l’articolo di Ángel Luis Lara pubblicato sul Manifesto) e un male strutturale che al suo interno accoglie ingiustizie, storture, orrori quotidiani, fa infatti più paura che agonizzare sotto un respiratore, o andare verso un’ignota catastrofe mondiale.

Un’altra passione indagata da Giordano è la speranza e il «pensiero magico» che essa porta con sé. Lo speranzoso distorce infatti la natura del tempo. Tale individuo impone alla natura di arrestare in un determinato giorno un evento che non gli piace, in questo caso il contagio, per sopportare l’attesa della fine dell’emergenza. Quando però è disattesa, perché ovviamente irrealistica e in disaccordo con il decorso naturale delle cose, la speranza si espone prima alla «delusione ripetuta», poi al senso di «angoscia». Potrei aggiungere che è per questa ragione che Esiodo racconta che gli dèi non vollero che la speranza uscisse dal vaso di Pandora. Se la disposizione a sperare fosse generalizzata, l’angoscia stenderebbe presto il suo velo soffocante sull’umanità già confusa e martoriata.

Le considerazioni sulla paura che nasce dall’ignoranza consentono poi a Giordano di riflettere su una passione di cui invece difettiamo dentro il contagio: il difetto di amore tra cittadini, istituzioni ed esperti. Questo deficit erotico determina a sua volta un atteggiamento di sospetto reciproco dal circolo vizioso. Gli esperti e le istituzioni nascondono i dati o semplificano troppo quanto accade perché diffidano dei cittadini che reagiscono male alle misure. Viceversa, i cittadini diffidano delle istituzioni e degli esperti, reagendo male alle misure, perché ritengono che molte cose vengono nascoste e semplificate. Ne nasce un sentimento di panico collettivo che si sarebbe potuto evitare avendo il coraggio di dire una verità scomoda e abituandosi gradualmente a un comportamento «adeguato al contesto». Un’immagine che Giordano usa per riassumere questa condizione è il grido di Pan. Come il dio si spaventa del grido stesso che emette, così cittadini e istituzioni ed esperti creano diffidenza negli altri con la propria diffidenza.

Sono invece soltanto accennate – e mai indagate – le reazioni di «rabbia (…), freddezza, cinismo, incredulità, rassegnazione». Qui Giordano si limita a invitare il lettore a controllare queste passioni, che inducono a gridare insulti o ad assumere altri atteggiamenti aggressivi verso gli altri, per vivere invece con maggiore cautela ed esercitare un po’ di «compassione». Imparare a dosare le energie emotive è un modo per sostenere un lungo periodo di fatica e di forzato isolamento. Più interessante è la formulazione di «un paradosso di questo tempo: mentre la realtà diventa sempre più complessa, noi diventiamo sempre più refrattari alla complessità». Uno dei portati dello svelamento della crisi pandemica è allora il fatto che non siamo più attrezzati a rispondere a eventi complessi, perché le nostre vite sono abituate alle semplificazioni. Si arriverà così a un punto in cui il divario sarà tanto profondo da separare la complessità del reale e la banalità delle nostre vite come il mare dal cielo.

Per ricomporre questa frattura, o in generale reagire in modo altamente costruttivo, Giordano trae infine ispirazione dal Salmo n. 90. Mosè prega Dio a favore del suo popolo: «Insegnaci a contare i nostri giorni, così acquisteremo un cuore saggio». L’esegesi di Giordano gioca sulla polisemia del verbo “contare”: elencare i numeri, ma anche apprezzare e accettare, come emerge da espressioni quali “le cose che contano”. Dal punto di vista cognitivo, la preghiera di imparare a far conto per acquisire « un cuore saggio» significa accogliere anche il tragico, o usarlo per riflettere meglio su quanto «la normalità c’impedisce di pensare: come siamo arrivati qui, come vorremo riprendere». L’obiettivo è in conclusione approfittare dello svelamento su noi stessi a cui la pandemia ci obbliga per giungere a nuovi, più complessi processi disvelativi. Se capiamo chi siamo “qui e ora”, potremo apprendere chi siamo stati in passato e cosa vorremmo essere in futuro. Forse, aggiungerei rispetto a Giordano, la paura e la speranza angosciosa potrebbero addirittura essere sostituite dall’allegria con il raggiungimento di una tale conoscenza. Il Salmo 90 continua del resto nel modo che segue: «Rallegraci per i giorni in cui ci hai afflitto, per gli anni in cui soffrimmo disgrazie».

Si potrebbe sostenere che Nel contagio di Giordano è stato scritto troppo presto, che le riflessioni compiute nel libretto avrebbero meritato più maturazione. O ancora, potrebbe parere lecito insistere che questo è il momento del silenzio: non è ancora opportuno riflettere sul contagio, perché si tratta di un evento troppo più grande di noi. Entrambe queste accuse mi sembrano però infondate, oltre che molto a rischio di nichilismo. Esiste una via di mezzo tra il silenzio assoluto, nel cui vuoto cova discretamente il rancore o la rassegnazione, e la chiacchiera senza costrutto. È possibile immaginare miriadi di interventi che si prendono un tempo per meditare sul contagio e reagire in modi costruttivi, senza accampare slogan, narrazioni consolatorie e celebrazioni retoriche dei piccoli gesti quotidiani, come fa appunto il libro snello ma pregevole di Giordano. E se i tentativi di riflettere “a caldo” sulla pandemia dovessero risultare modesti o fallimentari, essi mantengono un loro senso, soprattutto se sincero. Condannare in blocco ogni tentativo di riflessione non sembra insomma essere un’esternazione vincente.

[L'immagine rappresentata è L'ansia di Edvard Munch (1894)]