Il dio, la peste e il distruttore. Il sacro come razionalizza-zione della malattia
[Pubblichiamo un intervento del Dr. Davide D'Amico, laureato in Teologia biblica presso la Facoltà Valdese di Teologia di Roma e in Storia delle religioni presso la Sapienza Università di Roma. Ha perfezionato lo studio dell'ebraico biblico presso la Pontificia Università della Santa Croce e presso la Hebrew University di Gerusalemme.]
La più antica prova a nostra disposizione che documenta la consapevolezza di un contagio si trova nelle lettere della città siriana di Mari, risalenti all'inizio del XVIII secolo a.C.. Il testo (Archives Royales de Mari X, 129), scritto in accadico, è stato ritrovato nella Stanza 108 del palazzo reale della città e consiste in una lettera che Zimrilim, ultimo re di Mari (XVIII sec. a. C.), invia a sua moglie, la regina Sibtu. Vale la pena riportare il testo integrale:
A Sibtu, mia moglie, il vostro signore, dice: Ho sentito dire che Nanname soffre di lesioni cutanee; tuttavia, frequenta il palazzo. Infetterà molte donne con la sua malattia. Ora, dunque, ordina severamente che nessuno beva dalla coppa che usa, e che nessuno si sieda sul sedile su cui siede, e che nessuno si stenda sul letto su cui giace, in modo che non infetti molte donne con la sua malattia. Quella lesione cutanea è contagiosa.
Il testo è sorprendente sotto diversi punti di vista. Sono contenute le seguenti informazioni: a) il riconoscimento dell’elemento di contagiosità della malattie; b) due categorie di trasmissione: per contatto diretto e indiretto; c) paura del contagio e isolamento di colui che porta la malattia al fine di proteggere dall’esposizione le persone non infette; d) il primo uso conosciuto della parola accadica mushtahhiz con il significato di “contagiare” contro la sua prima accezione di “catturare”.
Tuttavia, gli antichi abitanti del Vicino Oriente non sapevano perché alcune malattie fossero contagiose. Essi consideravano molteplici le possibilità riguardo alle cause: la stregoneria, un attacco demoniaco, oppure l’ira divina. Tra le varie, quest’ultima pare essere quella più gettonata e quella sulla quale vorrei soffermarmi. I testi del Vicino Oriente antico, infatti, si riferiscono alla peste come a un “toccare” del dio (ilappat / ulappat) la regione colpita, il che implica che essi comprendevano la causa come proveniente da un essere sovrumano. Allo stesso tempo, le lettere della città di Mari descrivono le risposte alle piaghe. Queste ultime vanno dal contenimento di singoli individui, alla quarantena, all’esodo di massa dalle città colpite (laptum, letteralmente “toccate”). Significativa, a tal proposito, è un’altra lettera proveniente dall’archivio reale di Mari (ARM , 26) in cui un ufficiale consiglia al suo re di adottare misure del tutto simili ad una vera e propria quarantena:
Inoltre, il mio signore dovrebbe dare ordine che gli abitanti delle città, non appena sono stati toccati, non entrino in città intatte. Altrimenti, potrebbe benissimo accadere che essi tocchino l'intero paese.
Similmente alle tradizioni mesopotamiche, anche la Bibbia ebraica - sebbene appartenga ad un'epoca più recente rispetto alle lettere di Mari - si riferisce alle malattie infettive come alla manifestazione di un “toccare” (radice נ.ג.ע.) di Dio, con conseguente isolamento del portatore. Un buon esempio di ciò è riscontrabile in nel passo 15,5a del Secondo Libro di Re. In questo estratto viene descritto molto brevemente, 7 versetti, il regno di Azaria re di Giuda che regnò a Gerusalemme per cinquantadue anni. Nonostante egli fosse un re tutto sommato retto agli occhi del Signore, non attuò delle riforme religiose che miravano a garantire l’unicità del culto di Yahweh. Il giudizio di Dio su di lui fu inappellabile: “Il Signore toccò [radice נ.ג.ע.] il re, il che divenne lebbroso fino al giorno della sua morte e abitò in una casa di isolamento”. In altre parole, sia nei testi mesopotamici, sia nella Bibbia, anche se la causa delle malattie è di origine divina, gli effetti infettivi di queste possono essere trasferite da persona a persona. La consapevolezza, e dunque la paura, del contagio sembra accompagnare l’uomo sin da tempi molto antichi.
In ambito biblico, risulta particolarmente chiaro un ulteriore passaggio. Una persona così “toccata” veniva, come abbiamo visto, mandata in isolamento ma, inoltre, era considerata impura da un punto di vista rituale. La contagiosità assume così un valore religioso. Particolarmente esplicativo è, a tal proposito, Levitico 13,45-46, in cui si legge:
Il lebbroso colpito da piaghe porterà vesti strappate e il capo scoperto; velato fino al labbro superiore, andrà gridando: «Impuro! Impuro!». Sarà impuro finché durerà in lui il male; è impuro, se ne starà solo, abiterà fuori dell'accampamento.
Per determinare lo status di impurità/contagiosità, era richiesto l’aiuto della comunità. Se qualcuno avesse notato una piaga sul suo corpo, sarebbe dovuto recarsi alla presenza di un sacerdote. A quel punto, il potenziale malato veniva sottoposto ad un’analisi minuziosa che ne avrebbe verificato la pericolosità sociale. Così Levitico 13,2-3:
Se qualcuno ha sulla pelle del corpo un tumore o una pustola o macchia bianca che faccia sospettare una piaga di lebbra, quel tale sarà condotto dal sacerdote Aronne o da qualcuno dei sacerdoti, suoi figli. Il sacerdote esaminerà la piaga sulla pelle del corpo: se il pelo della piaga è diventato bianco e la piaga appare come incavata rispetto alla pelle del corpo, è piaga di lebbra; il sacerdote, dopo averlo esaminato, dichiarerà quell'uomo impuro.
Inoltre, se le tracce corporee non confermavano, ad una prima diagnosi, la presenza di una malattia infettiva, la persona poteva essere considerata pura/non contagiosa solamente dopo un periodo di quarantena di una settimana: “Ma se la macchia sulla pelle del corpo è bianca e non appare incavata rispetto alla pelle e il suo pelo non è diventato bianco, il sacerdote isolerà per sette giorni colui che ha la piaga” (Levitico 13,4). Finalmente dopo il periodo di quarantena, se i sintomi erano spariti, la persona poteva uscire dall’isolamento ed essere considerata nuovamente pura/non contagiosa: “Il sacerdote, il settimo giorno, lo esaminerà di nuovo: se vedrà che la piaga non è più bianca e non si è allargata sulla pelle, dichiarerà quell’uomo puro” (Levitico 13,6). Prima di tentare una conclusione, vorrei aggiungere un altro passaggio che mi pare significativo.
Nella Bibbia esiste un episodio che rende particolarmente difficile venire a patti – intellettualmente, emotivamente e teologicamente – con la spietatezza della mano di Dio. Mi riferisco alle cosiddette ‘piaghe d’Egitto’ e, in maniera particolare, alla morte dei primogeniti. Al versetto 13 del capitolo 12 dell’Esodo si legge:
E il sangue sulle case in cui soggiornate sarà per voi un segno: quando vedrò il sangue passerò oltre, affinché non abbiate la peste come un distruttore (mašḥit) quando colpirò la terra d'Egitto.
In maniera ancora più chiara il versetto 23 dello stesso capitolo:
Perché quando il Signore passerà per colpire gli Egiziani, vedrà il sangue sull'architrave e sui due stipiti della porta, e il Signore proteggerà l'ingresso e non lascerà che il distruttore (mašḥit) entri e colpisca la vostra casa.
La parola ebraica mašḥit, participio in forma causativa di una radice che significa ‘distruggere’, è spesso stata interpretata dagli studiosi come indicante un’entità demoniaca personalizzata. Il Dictionary of Deities and Demons in the Bible commenta questo termine, indicando esplicitamente una creatura sovrannaturale a cui Dio commissiona lo sterminio di grandi gruppi umani attraverso piaghe e pestilenze. Egli appare solamente in due contesti nella Bibbia ebraica: nel capitolo 12 dell’Esodo, come si è visto, e nel capitolo 24 (vv. 15-16) del Secondo Libro di Samuele, in cui l’azione del mašḥit è nuovamente connessa allo scoppio di un epidemia:
Così il Signore mandò la peste in Israele, da quella mattina fino al tempo fissato; da Dan a Bersabea morirono tra il popolo settantamila persone. E quando l'angelo ebbe stesa la mano su Gerusalemme per devastarla, il Signore si pentì di quel male e disse all'angelo devastatore del popolo: «Ora basta! Ritira la mano!».
Evitando di addentrarsi qui nel rapporto tra Dio e violenza, rapporto senza dubbio complesso, mi pare si possano tirare alcune semplici conclusioni. L’impressione è che il panorama biblico riveli, da una parte, una fluidità concettuale che riflette una conoscenza pratica del modo in cui le epidemie si diffondono tra le persone oltre che del loro effetto devastatore. Dall’altra, però, la stessa Bibbia attribuisce senza problemi il loro effetto devastatore al tocco di Dio stesso o al tocco di un’entità da lui delegata.
Di conseguenza, la rappresentazione dell'agente di distruzione (Dio/peste/distruttore) è altamente rappresentativa della tensione intrinseca nel cercare di dare un senso alla malattia, mediando tra l’esperienza dell'infezione come evento “naturale” e la credenza in Dio come agente causale ultimo.
Certo, non si dovrebbe leggere il libro del Levitico come un’istruzione per evitare le infezioni, né si dovrebbe considerare Mosè, che istruì gli israeliti su come evitare la furia del mašḥit, come un commissario della sanità pubblica. Tuttavia, la retorica esplicita di questi testi nasconde un ruolo ben più concreto riguardo la purezza nell'antico Israele, legato al controllo e alla cura delle malattie contagiose. L’assorbimento dell’impurità/contagiosità da parte di un ambiente sacerdotale, che regolamenta tali eventi naturali attraverso le leggi del culto, non ha altro scopo che tentare di portare ordine nel caotico mondo della malattia cioè, in fin dei conti, della morte. Attraverso la ritualizzazione, la paura della malattia viene, per così dire, esorcizzata e il disastro viene razionalizzato in uno schema comprensibile. Il disordine e la morte sono affrontati, potremmo dire, rimettendo la vita degli uomini nelle mani di Dio.
[L'immagine di copertina è di Charles Forster, Angel of Death and the First Passover (1897)]