Due (milioni di) parole su linguaggio, sublime e teatro

[Pubblichiamo un secondo contributo di Damiano Grasselli, già autore di Passione, silenzio e resurrezione, che riflette su come muta il linguaggio e il teatro, durante l'esperienza "sublime" della pandemia]


In confronto a ciò [la tecnica della radio e del cinema], il teatro che cosa può mettere sul piatto della bilancia? Unicamente, l'impiego dei mezzi viventi, e null'altro. (...) In questo modo abbiamo caratterizzato il teatro di formazione e di distrazione. Due elementi che, per quanto appaiano contrastanti, costituiscono comunque soltanto fenomeni complementari nel raggio di un ceto sociale saturato, per il quale diventa eccitante tutto ciò che la sua mano tocca. E tuttavia, anche se questo teatro cerca di far concorrenza - esibendo complicati apparati scenici e radunando un numero colossale di comparse - alle attrazioni dei film costate milioni e milioni, e anche se il suo repertorio tiene il passo con tutte le epoche e con tutti i paesi (...) ebbene, la concorrenza con ciò su cui la radio e il cinema hanno il loro dominio tecnico è inutile.


Walter Benjamin, Teatro e radio. Sul reciproco controllo della loro azione educativa



Sono chiuso in casa da quasi 2 mesi. Ho quasi nessun impegno reale durante la giornata e così leggo. Molto. Cinquanta libri in due mesi. Sono tanti. Ma a cosa servono realmente tutte queste parole? Se consideriamo una media credibile di quarantamila parole per ogni libro... Cinquanta libri sono due milioni di parole. A che servono due milioni di parole?

A comunicare. A rendere comunione con gli altri. Comunicare è creare comunità attraverso un lessico. E non semplicemente a parlare o a dichiarare. L’unica utilità che possono avere due milioni di parole è quella di comunicare. Di comprendere l’altro. Il discorso verso l’altro è fondamentale. Senza la necessità di andare verso l’altro non vi è comunicazione, lasciando stare la deriva pubblicitaria e capitalista-informativa che questo termine ha assunto negli anni..

Perché facciamo teatro se non per andare verso l’altro? Qualsiasi sia l’altro: il teatro è una forma di estroflessione di ciò che è dentro di me, un’uscita verso... E comunicare serve a questo: uscire verso l’altro. Non istruire, non comandare, non chiacchierare, non ordinare... Comunicare. Andare verso l’altro.

Due milioni di parole possono servire solo a comunicare. A null’altro. E, dunque, la mia colta saccenza, diviene ignoranza se io non so comunicare nulla malgrado l’uso sintatticamente corretto di due milioni di parole.

Comunicare è trovare il modo per comprendere l’altro in sé: è come se il gesto di estroflessione del teatro, comprendendo l’altro, ci riportasse reciprocamente ad un interiore condiviso. Io ti comprendo, tu comprendi me. E anche qui la lunga e difficile lotta tra l’essere compresi e l’essere capiti, mi verrebbe da dire tra l’essere amati e l’essere analizzati, diventa fondante. Io voglio essere compreso e comprendere: io voglio comunicare e non chiacchierare. La scelta, la partigianeria, su questo fronte, è fondamentale.

Se voglio essere in questa comune comprensione con l’altro, ho bisogno di trovare un canale, una via, un luogo di scontro-incontro che ci permetta di essere, insieme, in comunicazione. E questo può accadere solo tramite due modalità: il silenzio ed il linguaggio.

Nel silenzio avviene il sublime: la comunicazione è ininterrotta e la comprensione onnisciente. Non servono parole, non servono rivelazioni, non servono codici né immagini. Essere con l’altro nel silenzio è sublime, e quindi, pertanto, divino. Non accessibile con continuità, come tutto ciò che è mistero. Se comprendessimo una comunicazione totale nel silenzio, diverremmo dei mistici, sapremmo volare come Giuseppe Da Copertino, appariremmo alla Madonna. Quando Giobbe termina di lamentarsi, quando i suoi amici non gli impartiscono lezioni, a quel punto appare Dio, che si rivela nell’epifania del suo silenzio.

Oggi però il tempo del silenzio sembra nullo. Pare che tutti siano pronti sui posti di blocco per scattare verso una clamorosa ripresa: una ripresa rumorosa, fatta di carne e urla. Un pronti via che ci faccia tornare presti e sbrigativi al chiasso precedente. Dove sembra non esserci spazio né per il silenzio, né per il suono di un linguaggio in cui ci si possa comprendere.

E per cercare di comprenderci nella comunicazione, abbiamo bisogno, invece, di ritornare almeno alla parola, almeno al linguaggio. Ad un segno che ci possa mettere nello stesso suono: il linguaggio ha bisogno di ascolto, per potersi svolgere. Se c’è un suono, in qualche forma, può esserci un ascolto.

Il linguaggio è la possibilità di avere segni comuni sul quale intenderci, essere in ascolto ed in apertura: il linguaggio è la possibilità di stare con gli altri in forma materiale e non spirituale. Se della parte spirituale, del silenzio, sembra abbiamo decisamente perso le tracce, sul lato materiale possiamo ancora comprenderci.

E il compito di trovare questa parola comune non può che essere di chi ha due milioni di parole a disposizione. È un compito gravoso, nefasto, impervio, lento, ma è il compito necessario se vogliamo in qualche modo salvaguardare una qualche forma di comunicazione, di comprensione, di teatro.

Dobbiamo avere il coraggio e la forza di trovare un linguaggio che sia veramente in relazione ed in comprensione con e dell’altro: se ci aspettiamo che chi è stato (e si è anche volontariamente) privato del suo basilare linguaggio, accetti il nostro ruolo di “intellighenzia”, solo perché abbiamo nella valigia due milioni di parole... Compiamo l’errore più grande ed irreparabile che possiamo fare. Escludiamo aprioristicamente l’altro perché non ci consegna le chiavi di sapiente della città. Ci isoliamo con le nostre parole, tirando una netta linea di demarcazione, come oggi nei supermercati, a dividere chi ha parole (noi) da chi non ne ha e non ne sa usare (gli ignoranti, che non siamo noi).

Oggi il linguaggio è negato: assorbire uno slogan, una formula veloce, un ticchettare di quattro quarti su un giro di sol... Oggi è questa pochezza scialba, quel che ci rimane della parola. Una moda, effimera e passeggera, è la sola possibilità che viene concessa. E imposta. E come tutte le mode, effimere e passeggere, il ricambio deve essere presuntivamente immediato, affinché tutto sembri nuovo, affinché tutto appaia come brillante ed eccitante, affinché tutto si mantenga nella condizione di controllo prevista da chi ha imposto quella moda.

L’islam, il virus, la crisi, lo spread, i social... e via via fino agli sdoganatissimi prodotti bio, impatto zero, nuove figure professionali...

Sono parole facilmente dannose quelle che ci vengono proposte, slogan marcabili in ogni circostanza, slogan di paura e di finta fratellanza, che ci spingono all’odio verso l’altro e ad una brutale chiusura su noi stessi.

Gli slogan sono brevi, sono facili, sono memorizzabili in un click, marcano la loro presenza con immediatezza e sono difficili da cancellare. Li cancellerà un nuovo slogan, più immediato, più marcato, più violento e deleterio.

La caccia coi droni: mi sento parte di un mondo tecnologico potente e rassicurante.

Una app per il bene di tutti: mi sento parte di una comunità virtuale, poliziesca, con cui non voglio sfiorarmi nemmeno per sbaglio.

Le quattro D: ho solo bisogno di 4 parole per poter salvaguardare la mia vita.

Informatizzazione: sono informato, sono in azione, sono moderno.

Potremmo continuare ad elencare ciò che ci sta accadendo, riferendoci a quello che la ridicolizzazione della parola ha prodotto e produce. Potremmo trovare una casistica infinita. Ma non voglio continuare allo sfinimento l’elenco degli esempi. Volevo giustappunto parlare solo di teatro, perché è ciò a cui ho dedicato una vita. Due mi pare, sono le parole-slogan che stanno emergendo: Creare Netflix, la prima, e La cultura italiana, la seconda.

Creare Netflix significa aprire un mondo per i frequentatori della piattaforma: infinite serie Tv, infinite trame sperimentate e poi bloccate, rientrate, ritardate, anticipate. Lo vedo di notte e di giorno. Lo vedo da solo e poi lo rivedo con i bambini. Non mi convince e lo scarto. Lo vedo permettendomi i pop corn che al cinema disturbano sempre tutti. Lo vedo scoreggiando. Lo vedo con la dissenteria, poiché posso fermare quando e come voglio e poi ricominciare. Sull’autobus, seduto sul water, a casa dell’amante... Lo vedo ovunque, quando voglio, senza restrizioni. Chiuso in me stesso, con Netflix acquisisco la massima, presunta, libertà.

La cultura italiana è ormai un abracadabra, un passpartout che apre qualsiasi porta nel mondo. Dire cultura italiana significa dire la Disneyland del sapere: Dante Alighieri, Leonardo da Vinci, Michelangelo, Caravaggio... Via via fino ad arrivare a Federico Fellini, Arturo Toscanini... Chi non si sente toccato nel profondo da uno qualsiasi di questi o di altri nomi?

E allora il Netflix della cultura italiana è veramente un’espressione perfetta, inattaccabile: un luogo (ipotetico certo, ma cosa è reale, oggi?) dove poter vivere (virtualmente, certo, ma cosa è ancora in vita oggi?) il più grande panorama artistico nel mondo.

L’uditore distratto della Tv, magari un po’ annoiato dalla reclusione, probabilmente disinteressato già da anni di dimenticatoio della cultura, preoccupato dai suoi contingenti problemi, questo uditore distratto, oggi, davanti all’idea di una Netflix della cultura italiana si sente compreso e comunicato.

Non può e non deve essere così per chi ha professato il teatro con vocazione. Non può e non deve essere così, perché una Netflix della cultura italiana appiattirebbe i contenuti, rendendo visibili solo quegli show (e non è casuale la parola) che hanno la forza economica per essere prodotti: riprese, montaggio, distribuzione...

Non può e non deve essere così perché relegherebbe nel totale oblio (totale) quella sperimentazione da cantine che è stata la fucina dove si sono forgiati geni della cultura italiana (Carmelo Bene, su tutti).

Non può e non deve essere così perché alluderebbe ad una sensazione di fruibilità pantofolaia ed onanistica del teatro, assolvendo anche il quotidiano timbro alla cultura. E se è vero, come scriveva Artaud, che c’è un gusto solleticante nella masturbazione individuale, ciò accade solo in relazione alla memoria dell’atto di coppia, di incontro. Quindi ci serve avere un incontro per avere almeno memoria della pelle: e questo incontro è il teatro.

Non può e non deve essere così perché il teatro è il solo luogo ormai dove si vive di contatti, di odori, di vicinanze, di sudorazione. Forse lo sport, insieme alle arti dal vivo, lo sport in alcuni casi mantiene questa caratteristica, questo contatto organico. Ma in rari casi. Il teatro no: è ancora un cordone ombelicale inseparabile tra l’attore e lo spettatore.

Non può e non deve trionfare una Netflix della cultura italiana.

Ma, dobbiamo ammetterlo, lo slogan è forte, la moda che evoca davvero ben impostata.

Come difendersi? Io credo si debba fare capo a quelle parole, per ricercare una qualche soluzione. Non ci sono altre vie. E con questo richiamo al linguaggio, da ricostruire, ad un lessico in cui comprendersi, dobbiamo mettere nella sporta anche una dose inestinguibile di pazienza e l’accettazione della minoranza.

Dobbiamo lentamente trovare (ritrovare) parole: un linguaggio che ci permetta di metterci in relazione, comunicazione, comprensione con l’altro. E per farlo non possiamo rincorrere ansanti la velocità degli slogan pubblicitari che ci trafiggono, sfiancandoci, su internet: perderemmo, oltre alla sfida, anche la nostra originalità, la dignità e la forza comunicativa che abbiamo.

Non dobbiamo cercare di stare al passo coi tempi. Ma dobbiamo cercare le nostre parole nei nostri tempi. Ed imparare dal nemico (perché è un nemico!) davvero ignobile a trovare formule comprensibili e comprendenti, che non escludano ma mantengano viva la memoria dei maestri.

Abbiamo due milioni di parole, non dimentichiamolo: la nostra forza è conoscere meglio il linguaggio della relazione con l’altro. Con queste parole non dobbiamo ergerci a saccenti spacciatori di segrete ed incomprensibili formule. Questi due milioni di parole ci devono servire per indagare: qual è il motto (le mot, amis) che ci permette di entrare in relazione con questo essere umano davanti a me? Cosa posso comunicare, insieme a lui, per provare ad essere compreso? Quali sono, tra le mie infinite letture, quelle a cui posso guardare per trovare una parola che tocchi profondamente un animo, due animi, il suo ed il mio?

Facciamo uscire le nostre parole, le parole che possiamo e dobbiamo trovare adeguate. Facciamo del nostro atto di estroflessione un atto verso il mondo, lento e individuale, di giorno in giorno. Un atto teatrale continuo che porti le parole ad essere comprese.

Ecco è questa la riflessione che forse dobbiamo metterci a fare: ricostruire il nostro incontro con le persone, la nostra relazione comprensiva con gli esseri umani, attraverso la costituzione di un lessico forte, chiaro dignitoso. Attraverso un’apertura che sia l’opposto dell’onanismo che ci viene richiesto. Imparare a comunicare, con gli altri.

Altrimenti ci limiteremo, anche noi, alla mastrurbazione, imprecando contro tutto e tutti perché l’élite culturale (che indubbiamente potremmo essere, ma nessuno ci ha assegnato un patentino) non viene ascoltata. Ce la prenderemo sempre con la massa stolta, che non ci ascolta e che rimane ignorante. E così facendo la denigreremo, allontanandola e dimenticando la famosa frase che tante volte citiamo: ce la prendiamo sempre coi più deboli.

È un paradosso: ma i più deboli qui non siamo noi. Sono i ridotti “senzaparole”, gli ammutoliti dal nichilismo della parola che non sanno esprimere nessuno concetto. A volte non sono nemmeno in grado di dire se una cosa piaccia loro o meno. Sono stati tagliati fuori da ogni comunicazione: a loro è stato imposto di non pensare e loro si sono adeguati con grande facilità. Il divano è comodo, i popcorn caldi e su Netflix posso scegliere tutti gli intrattenimenti che voglio.

Non è attraverso uno scontro frontale con questo mondo, con la bagarre a basso costo e con lo sprezzante distacco di chi sa di avere più parole da spendere, che posso vincere. Le parole mi resteranno strozzate in gola, se non troverò il modo di essere in un linguaggio con gli altri.

Il nemico del teatro è, da sempre, il poter che lo soggioga. Pensiamo alla chiesa nel medioevo. Pensiamo a Mejerchol'd, a Zuskin, a Büchner, a Benjamin. Perché il teatro è la realizzazione del bilico tra la vita e la morte. E controllare i vivi, per il potere, è assai più complesso che controllare dei cadaveri. Ma, senza retorica, dobbiamo decidere noi se continuare a tenere l’equilibrio in quel bilico o accontentarci di una qualsiasi stabilità. Il cadavere è più statico di un vivo.

È una sfida immane, a volte mi viene da pensare già persa. A tutti noi, ignoranti e senza maestri. È una sfida che comprende le vette e gli abissi e che lascerà potrebbe vederci perdenti. Ma l’errore forse, da sempre, il non raggiungimento degli obiettivi, sta dentro l’atto stesso che si chiama teatro.

È la sola strada, ad oggi, che mi sembra percorribile per vedere cosa c’è dall’altra parte, oltre il deserto.

[L'immagine è il quadro
Giobbe di Leon Bonnat (1880)]